Aids, la strage senza fine nei Paesi africani: il 73% dei nuovi casi di Hiv tra gli adolescenti
Dal 1988 il mondo dedica una giornata alla lotta all’Aids, la sindrome da immunodeficienza acquisita, responsabile di quella che resta una vera e propria strage, spesso inascoltata: 32 milioni di morti fino a ora. Si tratta della prima giornata mondiale in assoluto che si è scelto di dedicare a una tematica inerente alla salute.
L’Hiv resta oggi un grave problema di salute pubblica a livello mondiale: secondo i dati dell’Oms 37,9 milioni di persone nel mondo vivono con l’Hiv e 1,7 milioni hanno contratto il virus solo nel 2018. «Con un crescente accesso a un’efficace prevenzione, diagnosi, trattamento e cura l’infezione da Hiv è ora una condizione di salute cronica gestibile, che consente alle persone che ci convivono di condurre una vita lunga e sana», spiega l’Organizzazione mondiale della Sanità in occasione della Giornata Mondiale dell’Aids 2019. Ma «è improbabile che gli obiettivi globali per l’HIV per il 2020 siano raggiunti a meno che non sia disponibile un maggiore sostegno».
«L’obiettivo di contenere i decessi per Aids al di sotto di 500mila persone entro il 2020 non sarà raggiunto senza un’azione decisiva per migliorare l’adesione alla terapia e contro le interruzioni del trattamento che determinano un’alta mortalità», conferma Ruggero Giuliani, vicepresidente di Medici senza Frontiere e infettivologo. «In passato abbiamo visto che i pazienti gravemente malati erano quelli inconsapevoli di essere sieropositivi. Oggi vediamo un numero sempre maggiore di persone che è stato trattato in un primo momento ma che ha successivamente interrotto la cura, ammalandosi in maniera grave. E altri per cui la cura non è più efficace».
L’allarme di Msf
Molti Paesi «sono ancora impreparati a diagnosticare e curare le persone che soffrono delle conseguenze di questa malattia e centinaia di migliaia di persone al mondo continuano a morire»: questa è la fotografia scattata dal nuovo rapporto di Msf Non c’è tempo da perdere, pubblicato in occasione della giornata mondiale di lotta contro l’Aids.
«La mancanza di una risposta tempestiva ai fallimenti terapeutici e le interruzioni della cura stanno mettendo a repentaglio i recenti progressi cha hanno visto diminuire il numero di morti per Hiv», avverte la ong. Il rapporto Non c’è tempo da perdere analizza le politiche sanitarie, le relative implementazioni e i finanziamenti stanziati in 15 Paesi di Africa e Asia per combattere l’Hiv avanzato – che nel 2018 ha ucciso 770mila persone, di cui 100mila bambini, in tutto il mondo. «Nonostante l’Oms abbia stabilito delle linee guida sull’Hiv avanzato sin dal 2017, l’impegno dei governi ad adeguare le proprie politiche nazionali è stato molto lento».
Hiv e Africa
È il futuro stesso dell’Africa a restare in balia della lotta a questo virus, principale causa di morte tra gli adolescenti nel Continente. Di morte, malattia e anche di stigma. Le mancate diagnosi delineano un quadro dai numeri schiaccianti: più dei due terzi dei pazienti con Aids curati per esempio nell’ospedale supportato da Msf di Nsaje, in Malawi, «sono arrivati già gravemente malati e avevano precedentemente iniziato la terapia antiretrovirale interrompendola». A Kinshasa, in Repubblica Democratica del Congo questo dato, dice la ong, raggiunge il 71%. Tra queste persone, «più di una su quattro morirà perché la malattia era a uno stadio troppo avanzato al momento del loro arrivo in ospedale».
Solo 8 dei 15 Paesi analizzati nel report di Msf «usano test rapidi per la tubercolosi su pazienti con HIV avanzato». In alcuni ospedali del Sudafrica «vengono utilizzati», ma serve «una maggiore e capillare diffusione a livello comunitario». Il Malawi «sta pianificando di adottarli in 230 centri sanitari nel 2020 e programmi pilota per introdurre questi test sono stati lanciati sia in Lesotho che in Nigeria». Un altro progetto pilota «è stato completato recentemente in Kenya prima di una possibile estensione a livello nazionale».
Africa orientale
La sfida, immensa, è stata raccolta tra gli altri anche dal programma Dream della Comunità di Sant’Egidio: non da oggi, ma da 18 anni. Un arco di tempo in cui il progetto ha offerto accesso gratuito alle cure in 11 paesi africani, con 49 centri di salute e 25 laboratori di biologia molecolare.
Il punto è che il 73% dei nuovi casi di Hiv tra adolescenti è localizzato proprio in Africa, sottolinea Avert, organizzazione benefica internazionale che si occupa di Aids e Hiv e che ha sede a Brighton, nel Regno Unito. Ad oggi la metà delle ragazze e dei ragazzi sieropositivi è concentrata in sei nazioni, sottolinea una nota della Comunità di Sant’Egidio. Cinque di queste appartengono allo stesso continente: Sud Africa, Nigeria, Kenya, Mozambico e Tanzania.
In Africa, entro il 2030, ci saranno altri 740mila giovani che contrarranno il virus.
«Sono quasi 6mila gli adolescenti attualmente in terapia nei centri di salute del programma della Comunità di Sant’Egidio. La metà di questi si trova in Mozambico, più di 1000 in Malawi e oltre 800 in Kenya», spiega la Comunità di Sant’Egidio in una nota. L’Africa orientale è l’area in cui la situazione è più preoccupante, e qui Dream ha tre progetti, finanziati dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo. L’Aics in questi giorni ha anche approvato un nuovo progetto per il rafforzamento dei servizi sanitari per adolescenti e giovani donne con HIV in Mozambico: comincerà nel 2020 e «permetterà di offrire per almeno due anni cure gratuite e di qualità a 2.500 giovani con HIV (per il 52% ragazze) tra i 10 e i 19 anni e 1.250 giovani donne sieropositive tra i 20 e i 25 anni».
I ragazzi e le ragazze di questi Paesi contraggono il virus già prima di venire al mondo, per via perinatale. Il resto si infetta attraverso il sesso non protetto.
In generale, tutti i giovani tra i 15 e i 24 anni «sono una categoria vulnerabile all’infezione». Perché? «I ragazzi, in una società in cui è alta la disuguaglianza sociale, sono soggetti a fattori come la carenza di risorse economiche, l’abbandono scolastico e l’esplorazione sessuale che aumentano la vulnerabilità all’Hiv», spiegano da Sant’Egidio. E poi c’è la «difficoltà di accesso ai servizi sanitari e la scarsa preparazione nella risposta nazionale in Africa Sub-Sahariana alle specificità di questo gruppo di età».
La storia di Eulalia
Eulalia ha 17 anni e viene da una famiglia della classe media del Mozambico. «Per anni aveva seguito una terapia antiretrovirale sbagliata», raccontano da Sant’Egidio. «La famiglia era stata indotta a comprare farmaci non in base alle reali necessità della ragazza, tutto dipendeva dall’offerta di chi li vendeva». Quando arriva al centro Dream, la ragazza è in condizioni critiche. «Fa tutti i test e le analisi necessarie e inizia una terapia finalmente adatta». Il servizio è gratuito, dicono dalla Comunità di Sant’Egidio. E la piaga, racconta la stessa storia di Eulalia, non riguarda solo le fasce più povere della popolazione ma tutti i contesti.
E poi c’è la rimozione e il peso dello stigma sociale. Quello che terrorizza Janet, che ha 13 anni ed è del Malawi: non ha ancora compiuto tre anni quando si scopre che è sieropositiva. «Inizia a prendere subito le medicine necessarie, ma ignora per anni la sua reale patologia». Poi inizia a rifiutare le cure: sta bene, non vede perché dovrebbe essere costretta a prendere medicinali. «Spesso a Dream si presentano genitori di adolescenti che chiedono aiuto. Non vorrebbero esser loro a dire ai figli come stanno le cose. Chiedono che sia il nostro personale a parlare con i figli. Si sentono in colpa», spiega Paola Germano, direttrice del programma della Comunità di Sant’Egidio.
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