Gli studenti italiani non sanno leggere? Il prof. Viale: «È colpa della scuola e di chi la governa» – L’intervista
Il programma Pisa-Ocse, che monitora il rendimento degli studenti nella lettura, nella matematica e nelle scienze, ha restituito un quadro preoccupante sulla preparazione dei ragazzi italiani. La rilevazione del 2018 si è concentrata sulle capacità di lettura e rispetto al 2009, mostra un peggioramento dei nostri ragazzi. «Non potevamo aspettarci un miglioramento visto che non sono state messe in atto misure organiche dall’ultima rilevazione, nel 2009, sul rendimento degli studenti nella lettura». Sono passati dieci anni e il professor Matteo Viale, esperto di didattica dell’Università di Bologna, guarda con rammarico all’inazione «dei decisori politici». Da una prima elaborazione dei dati, emerge che la capacità di lettura di oltre 11mila studenti, tutti di 15 anni, è inferiore alla media dei Paesi Ocse. Un calo importante c’è stato nella macroregione del Nord-Est. Ma in tutta Italia, è il 28% dei ragazzi a non raggiungere il livello minimo di competenza nella lettura. Percentuale migliore per le ragazze: è il 19% di loro a non raggiungere lo standard minimo.
Professore, come vengono raccolti questi dati?
«Pisa-Ocse ha una struttura molto solida e precisa, ma è importante capire un nodo di questa rilevazione: le prove vengono sottoposte ai ragazzi ogni tre anni. L’ultima focalizzata sulla lettura si è svolta nel 2009, poi nel 2012 c’è stata quella sulle scienze e nel 2015 il focus era sulla matematica. Quando parliamo delle variazioni, dobbiamo tenere a mente che coprono un arco temporale abbastanza lungo, nove anni».
Quindi i ragazzi di oggi sono meno preparati di quelli di un tempo?
«Non esattamente, è un discorso più complesso. La prova Pisa-Ocse non misura lo studio scolastico o la preparazione in senso stretto. Piuttosto, considera il modo in cui si è imparato a leggere al fine di risolvere i problemi. Non solo capire il senso letterale del testo, ma riuscire ad applicarlo nel problem solving, a mettere in situazione un testo, a estrapolare informazioni per utilizzarle in un altro campo. Cosa succede invece, in Italia? Che la scuola è legata a un lavoro sulla lettura di stampo molto tradizionale, quasi passato direi».
Cosa ci dicono questi dati?
«Purtroppo, la prima evidenza è che la formazione in Italia è rimasta inchiodata al passato. Pensare addirittura che, rispetto al 2009, si assiste a un peggioramento, deve far riflettere: la scuola è lasciata in disparte dai decisori politici rispetto ad altre materie».
Il test, invece, mi pare di capire che si sia evoluto.
«La novità del quadro di riferimento del 2018 è la presenza di una prova di lettura collegata al web: ci sono diverse domande in cui, per esempio, si simula come interpretare i risultati di una ricerca fatta su Google. Saper inserire quelle informazioni in contesti più ampi e valutare l’attendibilità di quello che troviamo in rete sono skill fondamentali, oggi».
Come si sono comportati gli studenti italiani in questa parte del test?
«Le prove Pisa-Ocse hanno provato a monitorare anche questo. Ci saremmo aspettati che questa parte di domande, quella relativa alle ricerche su Google, facilitasse i ragazzi. Semplicemente perché oggi c’è molta più abitudine a questo tipo di lettura rispetto a quella sui libri cartacei. Preoccupa, invece, che schiere di giovani si pongano con atteggiamento poco critico a ciò che c’è in rete. Il test, quindi, considera anche un approccio poco scolastico, al quale, però, i ragazzi non sono preparati».
Per non parlare dell’annosa differenza nella qualità della formazione tra Nord e Sud, tra città e provincia.
«Rilevazioni, studi ed esperienze personali sono univoci nel rappresentare fortissime discrepanze tra Nord-Est, Nord-Ovest, Centro, Sud e Isole. Ecco forse l’allarmismo maggiore dovrebbe concentrarsi sul fatto che la scuola italiana produce effetti molto divergenti nelle zone d’Italia. Le rilevazioni Pisa-Ocse, comunque, hanno mostrato un peggioramento anche in aree geografiche che tradizionalmente sono sempre state sopra la media nazionale».
Ci sono differenze, invece, tra licei e istituti tecnico-professionali?
«Assolutamente sì. Enormi differenze. I licei continuano a restituire risultati sopra la media. Il dramma sono le scuole professionali: vi rendete conto che 6 alunni su 10 sono sotto il livello di sufficienza nella capacità di comprensione di un testo? Nei licei solo il 10% degli studenti non ha raggiunto la sufficienza. Questa differenza, insieme alle altre evidenze, dovrebbe spingere a ripensare l’intera organizzazione dei cicli scolastici, che rischio le scuole segregando. Domandiamoci: può un nazione permettersi di formare dei ragazzi con simili lacune?».
Qual è l’aspetto più preoccupante della rilevazione?
«La cosa tragica è che, a parte i dati in sé, ciò che ci stiamo dicendo oggi avremmo potuto dirlo anche nove anni fa. Non c’è stata nessuna presa di consapevolezza da parte dei decisori politici, e quindi non si è fatto nulla per migliorare la situazione: finché non si cambiano le pratiche didattiche, non ci sarà nessun miglioramento».
Come si dovrebbe insegnare a leggere?
«La lettura deve essere uno strumento per i cittadini futuri. Cos’è per molti, oggi, l’insegnamento della lettura? Formare i ragazzi ad andare a fondo in un testo letterario, e basta. Lo stesso tipo di lavoro si dovrebbe fare con i testi giornalistici, scientifici o anche dell’esperienza quotidiana. Porsi di fronte a qualsiasi testo in maniera critica, consapevole, e insegnare a rielaborare quelle informazioni. Ribadisco, andare a fondo. Riflettere sul testo, valutarne l’attendibilità, declinarlo nella quotidianità. Una lettura che non finisce mai».
C’è una responsabilità nei libri di testo?
«È un circolo vizioso perché gli editori tendono a seguire ciò che la maggioranza vuole. Molti insegnanti vogliono insegnare usando i libri che hanno letto quando erano loro gli studenti. A volte c’è poco coraggio nel fare proposte che siano davvero innovative nel mondo dell’editoria scolastica. Ma non basta rinnovare i tomi per colmare il gap nella capacità di lettura: è la didattica che deve smettere di essere frontale. Bisogna imparare a declinare un testo in scenari che vanno oltre quella materia e l’apprendimento della nozione in sé».
Il deficit di cui parla il rapporto Pisa-Ocse si riverbera nell’esperienza universitaria dei ragazzi?
«Pensate che su questo argomento ci sono dei testi ottocenteschi in cui si lamenta la stessa cosa, la stessa incapacità nella comprensione delle lezioni universitarie. Credo che le lacune iniziali di alcuni studenti universitari possano essere all’allargamento della base degli studenti universitari. Per esempio all’Università di Bologna investiamo moltissime risorse nel recupero iniziale di competenze che, in passato, erano date per scontate. Oggi, invece, bisogna reinsegnarle agli studenti affinché abbiano lo stesso punto di partenza per i corsi universitari veri e propri».
Eppure oggi la comunicazione tra le persone avviene sempre più in forma scritta.
«È vero, ed è paradossale che ci sia questo deficit nella lettura, visto che non si è letto mai tanto quanto oggi. Anche l’uomo della strada legge le notizie dal cellulare, scrive messaggi ai ai famigliari invece di chiamarli. Qualitativamente c’è un abbassamento delle competenze. E forse proprio perché un uso superiore della lettura è stato sostituito da un uso più superficiale».
A chi è imputabile questo deficit di capacità di comprensione del testo?
«La responsabilità enorme è della scuola e di chi la governa. Oggi gli istituti non possono più permettersi di fare solo cose scolastiche, oggi bisogna dare agli studenti delle competenze che magari prima si potevano ottenere fuori dall’orario didattico. Per esempio, i dati Pisa-Ocse dovrebbero far dire al decisore politico che tutta la formazione professionale va aggiornata».
Come si può aiutare i ragazzi a leggere meglio?
«Quello che sappiamo è che la strada migliore per mettere in gioco la competenza della lettura è avere un atteggiamento attivo: fare progetti, legare quei testi che si leggono a un ambito materiale più vivo. È difficile, e per il momento viene lasciata all’iniziativa personale del singolo insegnante. Va incentivato il rapporto tra scuola e realtà, tra lingua e realtà. Leggo un testo a scuola e uso quella lettura per fare altre cose».
Chiudiamo con un appello a chi ha il potere decisionale per cambiare le cose nel mondo dell’istruzione.
«Non bisogna aspettare questi dati. La situazione era di per sé prevedibile, gli elementi per capire che qualcosa non va nella scuola esistono da tempo. L’appello è iniziare ad ascoltare gli attori della scuola per capire quali iniziative mettere in atto per risolvere i problemi. Facciamo un esempio. Emerge che il divario tra Nord e Sud va letto di pari passo al fenomeno della segregazione scolastica molto più incisivo nel Meridione. Le scuole del Nord vanno meglio anche perché hanno meno segregazione scolastica. Il che, vuol dire, avere sezioni dove ci sono i più bravi e classi di meno bravi. Molte scuole del Sud tendono a creare classi ad abilità differenziata. Eppure da anni i dati ci dicono che la formazione è migliore dove non ci sono i ghetti. Iniziamo a fare qualche normativa che vieti di creare classi dove iscrivere studenti meno bravi o, peggio, sulla base all’estrazione sociale delle famiglie. Facciamo una norma che lo vieti, subito».
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