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Il caso Castrucci è sintomo di una mancanza di diversità nel mondo universitario italiano? – L’intervista

05 Dicembre 2019 - 13:30 Riccardo Liberatore
Secondo Lala Hu, ricercatrice e docente di Marketing all'Università Cattolica, il caso solleva un tema più generale che riguarda la precarietà e la mancanza di diversità nel mondo accademico italiano. «Le istituzioni e le aziende devono fare di più per ridurre questi ostacoli e dare maggiore rappresentanza alle minoranze»

La vicenda Castrucci, il docente di Filosofia del diritto e Filosofia politica all’università di Siena che sul suo profilo Facebook condivideva contenuti antisemiti e razzisti, tra cui un post in difesa di Adolf Hitler, ha giustamente sollevato una nuova polemica attorno all’antisemitismo di matrice nazi-fascista in Italia. Mercoledì mattina gli studenti dell’università di Siena hanno manifestato per chiedere al Rettore una sanzione esemplare. Oltre alla denuncia alla Procura per apologia del fascismo, l’ateneo ha annunciato una commissione disciplinare per il 17 dicembre in cui verrà ascoltato lo stesso Castrucci, che per il momento non mostra alcun segno di pentimento.

Sono arrivate anche le condanne della politica, incentrate principalmente sulla necessità di dover allontanare ogni forma ed espressione di razzismo dalle università, di difendere gli atenei – come tutte le istituzioni – dal contagio ideologico. Ma è l’unico modo di arginare il fenomeno o si tratta solo di un cerotto su una ferita che, invece, richiederebbe un intervento di chirurgia? È di questo parere, per esempio, la scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego, che su Twitter ha evidenziato come, finché non si affronta la mancanza di diversità nelle università italiane, non si affronta il problema alla sua radice. Problema che, tra l’altro, ha anche una dimensione socio-economica, come sottolinea Lala Hu, docente milanese di origini cinesi e ricercatrice di Marketing all’Università Cattolica di Milano. Noi l’abbiamo intervistata.

Dott.ssa, il docente sarà denunciato per apologia dal rettore che ne ha chiesto il licenziamento. Perché la vicenda non si chiude qui?

«La vicenda ha suscitato una forte indignazione in particolare per il ruolo che ricopre Castrucci quale docente universitario. Non solo sono state pronunciate esternazioni negazioniste e anticostituzionali che hanno richiamato l’attenzione mediatica pochi giorni fa, portando poi all’avvio del provvedimento disciplinare da parte dell’Università di Siena. Ma soprattutto provengono da un docente, il cui ruolo comporta un’elevata responsabilità e compiti educativi nei confronti degli studenti e dei giovani. E che non è compatibile con la disseminazione di odio e discriminazioni di alcun genere»

È stato scritto che Castrucci è diventato un parafulmine per l’intero Paese, perché sono tanti a pensare, dire e scrivere le stesse cose. Crede sia così?

«Episodi come questo e come le minacce alla senatrice Liliana Segre, testimone dell’orrore dell’Olocausto, sono importanti segnali d’allarme che dovrebbero fare impegnare le istituzioni in azioni concrete contro la diffusione dell’odio, dell’antisemitismo e del razzismo»

Crede che se ne sia parlato abbastanza nel mondo accademico in Italia?

«È importante che le università affrontino questi temi, quindi è positivo che l’Università di Siena si è attivata sia come ateneo, sia con iniziative dei docenti e degli studenti stessi. Un maggiore dialogo fra mondo accademico con istituzioni e società civile potrebbe poi rafforzare il ruolo sociale dell’università nell’affrontare le complessità del presente. Il mondo accademico è volto alla divulgazione del sapere e come tutta la scuola, sin dall’istruzione primaria, è anche un luogo di formazione e crescita dei cittadini del futuro»

Nel suo tweet lei ne fa una questione più generale: ovvero che se l’università italiana è troppo monocolore, la mancanza di diversità affonda le sue radici nella mancanza di opportunità, nella precarietà. Ci spieghi meglio.

«In Italia le risorse allocate alla scuola e all’università sono molto scarse. Si investe in ricerca soltanto l’1,3% del Pil contro una media europea del 2,1%. Inoltre, la carriera accademica è contraddistinta da una continua precarietà. Dopo l’introduzione della legge Gelmini, che ha eliminato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, i giovani che avviano la carriera universitaria si ritrovano con contratti a termine e al contempo un carico di lavoro molto intenso, fatto di didattica e attività di ricerca, con annessa la pressione per le pubblicazioni su cui viene principalmente valutato l’avanzamento di carriera. Molti giovani ricercatori quindi decidono di andare all’estero, non solo perché attratti da migliori condizioni contrattuali e retributive, necessarie per una progettualità di vita oltre che di carriera professionale, ma anche da un maggiore riconoscimento del ruolo dello studioso nella società. Che contribuisce alla creazione di sapere e innovazione in un Paese»

Non è d’accordo con chi – come Igiaba Scego – denuncia una forma di discriminazione nel mondo universitario nei confronti delle minoranze? Crede che non ci sia un nesso tra precarietà a discriminazione?

«Il problema sta alle radici: le condizioni di partenza, spesso sfavorevoli, limitano l’accesso delle minoranze a settori di per sé precari e molto competitivi, come quello dell’università, ma non solo. Limitano anche il raggiungimento di posizioni dirigenziali nelle aziende o nelle istituzioni. Molte volte le minoranze, in cui rientrano donne, persone di origine straniera e tutte quelle categorie che non hanno mezzi solidi di supporto socio-economico e devono anche affrontare ostacoli culturali, non hanno la possibilità di considerare scelte di lavoro che deviino dal loro background di partenza. Le istituzioni e le aziende devono fare di più per ridurre questi ostacoli e dare loro maggiore rappresentanza»

Lei ha avuto modo di constatarlo nella sua carriera accademica?

«Nel mio caso, a pochi anni dal conseguimento del dottorato ricopro il ruolo di “ricercatore”, seppur a tempo determinato, che rappresenta un contratto più stabile rispetto agli assegni di ricerca o alle docenze a contratto della durata annuale, se non di durata inferiore. In un settore spesso accusato di pratiche non trasparenti, i concorsi a cui ho partecipato hanno valutato unicamente i candidati sulla base di titoli e pubblicazioni. L’università non è un mondo inaccessibile. Ma ci vogliono impegno, costanza e determinazione, indispensabili se si vuole intraprendere la carriera accademica. Alcuni miei colleghi invece si sono spostati in università straniere, anche prestigiose, ma nutrono il desiderio di tornare in Italia. Mancano però le opportunità per farlo»

Perché l’università italiana dovrebbe cercare di attrarre più minoranze e come deve agire per farlo?

«Innanzitutto, si dovrebbe riconoscere il ruolo centrale dell’istruzione nella società investendo maggiormente nella scuola e nell’università, anche considerando gli ultimi dati preoccupanti sulle competenze degli studenti. Il report Ocse-Pisa fotografa una capacità di lettura degli studenti italiani inferiore alla media e una scarsa comprensione della matematica e delle scienze. Bisognerebbe abbattere le barriere all’ingresso che non permettono a minoranze e categorie svantaggiate di accedere alla formazione scolastica e universitaria. Barriere che si traducono poi in riduzione di opportunità lavorative e in rischi di marginalizzazione. Sono inoltre necessarie una maggiore internazionalizzazione e una sburocratizzazione del sistema universitario italiano, che lo renda maggiormente competitivo e moderno rispetto alle università di altri paesi avanzati. Ritengo poi che per affrontare le sfide del futuro si debba incentivare la collaborazione delle università con le aziende e le istituzioni, attraverso sinergie che possano favorire i processi d’innovazione e il trasferimento della conoscenza, con ricadute positive sull’intero tessuto economico e sociale dell’Italia»

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