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Migranti, Lamorgese rispolvera il Codice di condotta per le Ong. La protesta: «Non serve, basta il diritto internazionale»

05 Dicembre 2019 - 19:44 Angela Gennaro
«Concentrare l’attenzione sulle navi umanitarie, che hanno sempre rispettato le leggi del mare e rappresentano una minima parte degli arrivi, non è che una distrazione dal problema», dichiarano le organizzazioni

Un codice di condotta per le ong che si occupano di ricerca e soccorso in mare: lo aveva annunciato, e c’è stato anche un primo incontro con le organizzazioni non governative al Viminale – per il quale, tra l’altro, viene attaccata dal suo predecessore Matteo Salvini.

La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sta continuando a lavorare a un protocollo che contenga delle ‘linee guida’ valide a livello europeo per le navi private che effettuano soccorso e ricerca nel Mediterraneo e, più in generale, in tutte le acque di competenza dell’Unione europea. Prima di lei ci aveva provato il predecessore del suo predecessore, Marco Minniti. Un passaggio controverso nella sua permanenza al Viminale.

La versione Lamorgese

L’Italia mai verrà meno ai suoi obblighi rispetto al diritto internazionale, quello del mare e rispetto all’obbligo, morale e giuridico, di salvare vite in mare. Ma la ministra vuole in qualche modo “regolamentare” la questione, con un occhio alle politiche migratorie in Europa e mettendo nero su bianco regole più sicure e norme di condotta che devono essere valide per tutti gli Stati dell’Ue.

Secondo quanto ricostruisce l’Ansa, al Viminale sono al lavoro su due fronti: la necessità di inquadrare sul piano giuridico l’attività di tutte le imbarcazioni private che svolgono attività Sar nel Mediterraneo – quindi non solo le Ong, ma anche le navi commerciali, obbligate (come tutti) al soccorso in mare in caso di necessità – e l’esigenza di stabilire dei requisiti tecnici omogenei per svolgere le attività di salvataggio.

Il protocollo dovrebbe essere una sorta di “cornice” di regole condiviso e sottoscritto da tutti i paesi dell’Unione europea: un progetto ambizioso che vuole così coinvolgere quei famosi stati di bandiera delle navi ong (la Germania, tra gli altri) che operano nel Mediterraneo centrale.

C’è un’interlocuzione, ma non – al momento – una negoziazione con le organizzazioni non governative, giacché si parla, a queste condizioni, di un accordo tra Stati: quel passaggio successivo agli accordi di Malta che stanno – in maniera più o meno “oliata” – costituendo la base delle redistribuzioni delle persone che sbarcano (spesso) in Italia (e raramente a Malta).

La ministra, prosegue l’Ansa, vorrebbe avere primi feedback in Europa a gennaio, in occasione del vertice dei titolari dell’Interno. Ma già la prossima settimana dovrebbe essere prevista una riunione di diversi esponenti del governo con tutti gli ambasciatori dell’Unione.

La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese partecipa al Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica a Milano, 4 Ottobre 2019. ANSA / Matteo Bazzi

Le ong non ci stanno

A tre mesi dall’insediamento del nuovo governo, le organizzazioni impegnate in attività di ricerca e soccorso in mare hanno proprio oggi lanciato un appello alle autorità italiane e in particolare alla ministra dell’Interno Lamorgese «per ribadire l’urgenza di ripristinare il diritto internazionale nel Mediterraneo centrale e affrontare il drammatico impatto umanitario delle politiche in corso».

Le organizzazioni si dicono inoltre disponibili a continuare un dialogo «con l’obiettivo comune di salvare vite in mare, ma non se l’unica azione in discussione è il controllo delle navi umanitarie, che non sono il problema ma parte della soluzione».

Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms e Sea Watch rigettano di fatto la possibilità di un nuovo Codice di condotta: «Il diritto internazionale è l’unico “Codice di Condotta” possibile, già in vigore e del tutto sufficiente. Deve urgentemente essere messo al centro di ogni decisione in materia di ricerca e soccorso affinché venga rispettato da tutti gli attori coinvolti, a partire da quelli istituzionali, come è sempre stato fatto dalle organizzazioni in mare in ogni operazione di salvataggio», dicono in un comunicato congiunto.

«Apprezziamo i passi avanti in termini di dialogo e coordinamento europeo, ma servono soluzioni reali. Concentrare l’attenzione sulle navi umanitarie, che hanno sempre rispettato le leggi del mare e rappresentano una minima parte degli arrivi, non è che una distrazione dal problema», dichiarano le organizzazioni.

Il primo punto sollevato dalle organizzazioni è la necessità di assicurare un efficace coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso, «che preveda un meccanismo di sbarco coordinato a livello europeo in grado di garantire la tempestiva indicazione di un vicino porto sicuro e la ricostituzione di una capacità di ricerca e soccorso governativa con l’impegno di risorse dall’Italia e da tutti gli Stati membri».

È di questi giorni la notizia, a suo modo inedita, del soccorso della nave Alan Kurdi che ha visto anche la partecipazione (insufficiente, a detta della ong Sea Eye, ma comunque registrata) del centro di coordinamento tedesco di Brema.

Nonostante la riapertura del dialogo con le organizzazioni, è il ragionamento della società civile, «i soccorsi delle navi umanitarie sono ancora soggetti a incertezze e sospetto, mentre la concessione del porto di sbarco resta condizionata ad accordi per la redistribuzione negoziati caso per caso, peraltro in una stagione che rende la permanenza in mare ancora più penosa per la salute e la sicurezza dei naufraghi e degli equipaggi». E i naufragi continuano: almeno 743 persone sono morte quest’anno nel Mediterraneo centrale, migliaia sono state intercettate e riportate in Libia.

Le organizzazioni chiedono ancora la modifica dei decreti sicurezza in Italia – con tutte le loro conseguenze, compresi i sequestri delle imbarcazioni – e l’interruzione del supporto fornito alle autorità libiche, «con cui il governo italiano ha rinnovato un Memorandum di Intesa che ha come conseguenza diretta l’intercettazione in mare di migliaia di persone in fuga che vengono riportate sistematicamente in un paese in guerra e nelle disumane condizioni dei centri di detenzione, in violazione del diritto internazionale».

In copertina ANSA/Fabian Heinz/ Sea Eye

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