La parola della settimana: navigare
È un dettaglio non trascurabile il fatto che il test OCSE-PISA – che ha confermato che gli studenti italiani sono sotto la media dei Paesi Ocse in lettura – sia stato fatto per la prima volta al computer. Per la prima volta sono stati introdotti anche brani tratti da testi online con lo scopo di valutare se la Gen Z – i nati dopo gli anni 2000 – sia in grado di navigare intelligentemente. Ma chi naviga ancora? E cosa ci azzecca con la lettura?
C’è stato un momento, forse sarebbe più giusto dire “una fase”, durata qualche anno in cui si diceva ancora “navigare su internet” (il “web” è arrivato dopo). Erano i primi epici, romantici anni del www in cui digitare Hotmail o Napster nella barra in alto allo schermo rappresentava, almeno dal punto di vista linguistico, uno sporgersi verso l’ignoto. Evocava l’inizio di un viaggio nel mare sterminato del web.
Probabilmente c’era anche una buona dose di strategia e di marketing nella scelta dei termini, come del nome “Internet Explorer” (1995) per il web browser della Microsoft (è arrivato prima Internet Explorer o la frase “navigare su internet”?). Si vendeva non solo un servizio ma anche un’idea, un’emozione.
Soltanto dopo sono arrivati “Chrome” (2008) – duro, resistente, inossidabile: un navigatore distaccato e affidabile – o “Firefox” (2002) – navigatore agile, veloce, scaltro come una volpe – o, con il più affabile e ironico “Safari” (2003), una via di mezzo tra una copia e una parodia dell’originale Microsoft.
Un’evoluzione paradossale se si tiene conto del fatto che dai suoi albori ad oggi il web si è ingigantito – da 1 miliardo di utenti nel 2005 siamo arrivati a 3,8 miliardi nel 2018 – diventando un posto più ricco e più vario, ma anche meno sicuro. Nei primi anni il “dark web” dove acquistare armi o droghe esisteva appena, per esempio.
Rispetto all’inizio sono subentrati l’abitudine, forse anche il disincanto. Nonostante il web sia più grande e più pericoloso, è diventato anche uno strumento di lavoro, o per sbrigare piccole faccende quotidiane come pagare le bollette. E poi lo usiamo in un modo diverso.
Secondo gli ultimi dati audiweb, nel mese di settembre in Italia gli utenti unici in media erano circa 33 milioni al giorno (circa il 70% della popolazione mensilmente) per un totale giornaliero di quasi cinque ore passate a “navigare”. Soprattutto sugli smartphone (circa il 30%, per oltre quattro ore e mezza a testa). Insomma, galleggiamo più che navigare.
Nonostante questo da quando c’è la rete, navigare non ha più lo stesso significato, anche se magari non si usa più in riferimento al web . Rientra tra le parole travolte (o stravolte) dall’avvento del digitale. Come “mi piace” (grazie Facebook) o “ricerca” (non si dice googlare?).
Rientra anche tra le parole che vengono usate per bacchettare i giovani: la “navigazione” contribuisce all’analfabetismo, è l’eccessiva familiarità con “i social” a far sì che – come dice l’ultimo studio Ocse – in Italia i giovani abbiano una minore capacità di comprensione di un testo rispetto alla media dei Paesi Ocse (“Giovani e lettura. Dante non si naviga”, titola così, per esempio, l’Eco di Bergamo).
Sarà in parte vero. Eppure, i Gen Z probabilmente usano navigare in senso letterale e più preciso di così. Basta leggere la definizione che la Treccani dà della parola – «Per traslato, in informatica, seguire un certo percorso nell’ambito dei dati, dei programmi e delle risorse di un ampio e complesso testo, per es., un’enciclopedia in CD-ROM, oppure di una rete di computer: n. in Internet, passare da un sito all’altro» – per capire che andrebbe aggiornata.
Poi, come scrive Mila Spicola sull’Huffington Post, l’indagine Ocse Piaac, che rileva le competenze in comprensione del testo della popolazione adulta, rileva che lì siamo ultimi. Avoglia a navigare.
Questo articolo è stato modificato per aggiornare i dati Audiweb.
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