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La parola della settimana: “Open”

21 Dicembre 2019 - 06:12 Giada Ferraglioni
Testimonianza di un giornale al suo 365esimo giorno di vita

Quando il primo dicembre del 2018 ci ritrovammo per la prima volta nella sala riunioni di via Medici, l’unica cosa che sapevamo gli uni delle altre era che avevamo passato le selezioni per il «nuovo giornale di Enrico Mentana».

Il nome di Enrico Mentana era anche l’unica cosa che sapevamo di Open – nome del sito a parte. La maggior parte di noi aveva ricevuto una chiamata un paio di settimane prima, aveva raccolto le proprie cose in fretta e furia ed era salito sul primo treno per Milano.

Per tutti e tutte Open è stato un atto di fede: abbiamo lasciato città, famiglie, amici e lavori per scommettere il nostro futuro a lungo termine su un progetto di cui sapevamo pressoché nulla.

Passato / Partecipazione

La prima cosa che imparammo fu la difficoltà di trovare una stanza a Milano. Alcuni di noi – quelli più fortunati – trovarono ospitalità dai propri fratelli o sorelle o amici, mentre altri passarono le prime settimane a rimbalzare da un bed&breakfast a un altro.

Durante gli ultimi giorni di novembre, setacciammo tutti i profili Facebook dei nostri conoscenti più lontani, per scoprire se qualcuno di loro si fosse trasferito a Milano di recente o se conoscesse, magari, qualcuno che fosse in contatto con qualcun altro che avesse un’amica che affittasse una stanza a un prezzo decente.

Credits: Josè Maria Sava

Come spesso accade, una stanza a un prezzo decente non la trovammo. Ancora oggi, a distanza di un anno, molti di noi pagano lo scotto di un affitto decisamente fuori dalla loro portata. Ma, benché le spese portavano (e portano) via gran parte del guadagno, ogni mese potevamo almeno avere la certezza di poter versare la quota al padrone di casa. Il che, in effetti, non era poco.

La seconda cosa che imparammo fu che cosa significa vivere lontano dalle persone care. Questo, in realtà, lo sapevamo già: chi fuggito all’estero per studiare, chi trasferitosi in una regione più a nord della sua per lavorare, tutti avevamo da molto tempo metabolizzato l’imprescindibilità della tecnologia. Le videochiamate su Skype la sera, i vocali nei tragitti in metro, i messaggi prima di andare a dormire. Qualcuno lasciava una vita costruita oltre il mare, qualcun altro una moglie e una casa di proprietà in una regione per cui i treni costano un occhio della testa.

La terza cosa che imparammo fu che bastava un attimo per finire vittima della disinformazione. Nelle prime settimane di vita del giornale alcuni nostri articoli e alcuni nostri profili furono al centro di ricostruzioni discutibili e opinioni del tutto infondate. Ci venne detto che eravamo legati alla Fondazione Open di Matteo Renzi, o che addirittura che prendessimo i soldi da George Soros. Ci venne detto che i nostri articoli erano faziosi, creazioni mostruose del «pensiero unico dominante». Qualcuno di noi fu diffamato in prima persona.

La quarta cosa che imparammo fu che la nostra esperienza più diretta della vita era esattamente il taglio editoriale che ci richiedeva Open. Nessuno meglio di noi conosceva le difficoltà della nostra generazione, dalle scarse opportunità lavorative che impediscono il normale scorrimento della routine, fino alla difficoltà di mantenere dei rapporti umani in un’economia in continua e profonda stagnazione.

I millennial potevano finalmente partecipare al racconto giornalistico. Quella che rischiava di essere una lost generation, aveva ora un’occasione per restituire alle cronache uno sguardo sul mondo per come lo conosceva.

Presente / Testimonianza

Ma certo non eravamo solo giovani in fuga e in cerca di un equilibrio economico. Eravamo – e siamo – ragazze e ragazzi immersi fino al collo nella rivoluzione del genere, convinti di non volerci più definire solo per il nostro orientamento sessuale o per il genere biologico di appartenenza. Ragazzi e ragazze che non hanno mai conosciuto la differenza tra la famiglia tradizionale e quella arcobaleno, che non hanno mai dubitato nel rifiutare i diktat di una società eteronormata.

Eravamo – e siamo – preoccupati e attivi sul fronte delle battaglie contro il disastro climatico. Abbiamo visto le nostre città allagarsi, le nostre coste esondare, i nostri fiumi sparire. Abbiamo visto boschi prendere fuoco a pochi metri di distanza dalle nostre case. Abbiamo visto cieli senza stelle e abbiamo respirato aria senza ossigeno. Non abbiamo fatto il bagno nei litorali delle nostre regioni perché le autorità ne sconsigliavano la balneazione. Leggevamo sui giornali che la nostra città aveva di nuovo superato i livelli di Pm10 consentiti dalla legge. Facevamo (e facciamo) la differenziata.

Avevamo – e abbiamo – amici arrivati dai Paesi più in crisi, che ci hanno raccontato il dramma delle tratte di esseri umani e delle migrazioni nel Mediterraneo. Qualcuno era sulle navi delle Ong quando gli attivisti umanitari hanno tratto in salvo delle persone a largo della Sicilia.

Qualcuno di noi conosce in prima persona cosa significhi parlare italiano da sempre e non avere la cittadinanza. C’è chi ha insegnato la lingua gratuitamente a gente arrivata da lontano, e chi ha aiutato bambini di altre nazionalità a scoprire e mettere in pratica qui, nel nostro Paese, i loro talenti.

Le battaglie per i diritti civili, le mobilitazioni per l’ambiente, l’attenzione alle migrazioni e ai mutamenti della società: ne scriviamo ogni giorno perché sono una testimonianza aperta e concreta del nostro vissuto. Anche in questo caso, Open è stata una scuola di cronaca.

Futuro / Apertura

Cos’è Open, quindi? A un anno di distanza, dare la risposta dovrebbe essere facile. Dovrebbe arrivare senza troppi dubbi e indugi, e dovremmo avere tutti la stessa parola lampeggiare nella testa. Eppure non è così: cos’è il nostro giornale non lo sappiamo ancora fino in fondo.

Open ogni giorno è diverso. Si muove insieme a noi, a quel che vediamo, ai nostri progetti, alle nostre esperienze, alle nostre discussioni. Si muove insieme al mondo, ai suoi problemi, alle sue difficoltà. Si muove insieme alle sue vittorie e alle sue sconfitte.

Ogni tanto, seduti ai bar dove ci ritroviamo spesso fuori turno, ci piace ripeterci che la nostra “missione” è quella di restituire complessità al mondo, a fronte di una comunicazione che troppo spesso punta a negargliela. Quella di andare oltre il bianco e nero, di cogliere – anche con l’aiuto del linguaggio – le varie sfumature e le diverse tonalità della moltitudine in cui siamo immersi.

Perché Open è ancora quello che era all’inizio, un atto di fede spalancato sul futuro. Un voto verso il mondo e verso noi stessi, la promessa e l’impegno di essere attenti, presenti e partecipi delle cose che accadono. Di essere obiettivi e concreti fino in fondo, affinché i nostri occhi sulla realtà servano a creare e ricreare il mondo in cui viviamo. Stavolta, magari, che sia meno indifferente.

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