Impeachment Trump, quando inizierà il processo al Senato (e su cosa si sfidano repubblicani e dem)?
È passata circa una settimana da quando il Congresso americano ha votato, con una maggioranza semplice, per confermare la messa in stato d’accusa del presidente americano, Donald Trump. Trump è stato accusato di aver abusato del suo potere nel fare pressione sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky, affinché portasse avanti indagini sul suo rivale Joe Biden e sul figlio Hunter Biden, e di aver ostruito l’inchiesta del Congresso. Ma il processo dell’impeachment non è ancora finito e la nuova fase vede contrapposti democratici e repubblicani, dentro e fuori al Senato.
Verso il processo, previsto per gennaio
Il voto al Congresso ha aperto alla fase successiva dell’impeachment, che prevede un processo al Senato, la camera più alta del parlamento americano che, a differenza della Camera dei rappresentanti, è a maggioranza repubblicana. L’esito del processo, che dovrebbe iniziare il mese prossimo, dopo le festività natalizie, è quasi scontato: i repubblicani dovrebbero riuscire a “salvare” il presidente, visto che serve una maggioranza di due terzi per condannarlo. Ma questo non sta impendendo ai due schieramenti di giocarsi la partita come possono. Al netto dell’improbabile condanna di Trump, quello che conta è sopratutto il dibattito sull’impeachment e il suo impatto sulla campagna elettorale per le presidenziali del 2020. Il ritardo nell’inizio del processo al Senato è imputabile anche a questo: la speaker della Camera, la politica democratica Nancy Pelosi, ha ritardato nel presentare al Senato gli articoli della messa in stato di accusa del presidente in una mossa che ha fatto molto discutere. L’obiettivo sarebbe duplice: da un parte, far pressione sui repubblicani affinché chiariscano le modalità del processo, dall’altra invece, prolungare l’impeachment per danneggiare Donald Trump, nella speranza che nuove rivelazioni possano metterlo in difficoltà.
Il braccio di ferro sui testimoni
L’ultima novità riguarda un’email – definita «esplosiva» dal leader dei democratici al senato Chuck Schumer – inviata dal direttore associato per la Sicurezza Nazionale, Michael Duffey, in cui chiedeva al Pentagono di congelare $391 milioni in aiuti militari all’Ucraina circa un’ora e mezza dopo la telefonata “incriminata” tra il Presidente americano e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky. Per l’accusa sarebbe un’altra prova che il presidente americano avesse usato gli aiuti militari per far leva su Zelensky affinché facesse indagare i Biden. Duffey è uno di quattro funzionari americani chiamati da Schumer a testimoniare nel Senato (lui, come altri, non sono mai stati chiamati a testimoniare davanti al Congresso durante l’inchiesta durata nove mesi). Le richieste, però, sono state rifiutate per il momento dal leader dei repubblicani al senato Mitch McConnell, che però non ha escluso definitivamente l’ipotesi, aprendo alla possibilità di tenere un processo simile a quello dell’ex presidente Bill Clinton nel 1999, in cui erano i senatori, dopo le dichiarazioni di apertura, a decidere quali testimoni chiamare.
Questo il nodo fondamentale: a poco è servito un incontro – definito “cordiale” – tra Schumer e McConnell giovedì 19 dicembre. Schumer avrebbe chiesto a McConnell di pensarci durante le feste natalizie, ma il politico repubblicano non sembra intenzionato ad assecondare la richiesta dei democratici. Il timore dei repubblicani è che le testimonianze possano influenzare non soltanto i senatori, ma anche l’opinione pubblica. Ma la strategia democratica, di posticipare l’inizio del processo al Senato, potrebbe però non avere l’effetto desiderato, visti i ripetuti “no” dei repubblicani e la risposta energica della Casa Bianca che ha colto l’occasione per accusare i democratici di ostruzionismo, di essere dei «perditempo» e di alimentare la «palude» a Washington D.C che lui, Donald Trump, era stato eletto nel 2016 proprio per “prosciugare”.
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