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Che cosa può succedere ora tra Usa e Iran dopo la morte di Soleimani: Verso una guerra aperta? – Gli scenari

Dopo la morte del generale iraniano si aprono nuovi scenari nello scontro tra i due Paesi. L'intervista a Raffaele Mauriello Assistant Professor all’Università Allameh Tabataba’i di Teheran

I raid degli Stati Uniti non hanno solo colpito il leader delle forze speciali dei Guardiani della Rivoluzione. L’attacco degli Usa, in cui è rimasto ucciso il generale Qassem Soleimani, è un attacco al cuore dell’Iran, alla strategia difensiva del Paese rappresentata dal suo approccio di guerra asimmetrica.

È un affondo che ha fatto dell’eroe militare un martire, amplificando ancora una volta quel sentimento di pietas sciita e del ricordo del martirio dell’Imam Husayn, un sentimento capace di unire e unificare una comunità contro un nemico comune.

Ansa/Qassem Soleimani

Le ripercussioni del gesto degli Stati Uniti a Baghdad sono potenzialmente devastanti per un Paese già sull’orlo del baratro dopo l’invasione americana del 2003 e per la regione e i rapporti tra due potenze che da 41 anni sono appese al filo molto sottile della diplomazia. Ora questo filo sembra essersi spezzato, scatenando in Iraq, casa di Kerbala e cuore dell’Islam sciita, una reazione che potrebbe infliggere dure perdite a Washington e all’Iran.

«Oggi gli americani hanno ucciso un alto funzionario di un Paese con cui non sono formalmente in guerra: questo è un atto», spiega Raffaele Mauriello, Assistant Professor all’Università Allameh Tabataba’i di Teheran e professore presso il Master in Geopolitica e Sicurezza Globale della Sapienza Università di Roma. «Siamo abituati ad associare l’Iran al terrorismo – sottolinea Mauriello – ma non può passare in secondo piano che l’atto degli Stati Uniti è un atto che va contro il diritto internazionale».

L’attacco statunitense è avvenuto all’aeroporto di Baghdad dove il numero due della milizia sciita Hashed al -Shaabi, Abu Mahdi al Muhandis, era arrivato per ricevere con un convoglio il generale Soleimani.

La risposta militare

Ora si aprono diversi scenari dopo l’uccisione del generale. «La risposta sarà geopolitica. Va precisato che Soleimani non è il numero due dell’Iran ma parte di un sistema complesso. Hanno ucciso una persona che era amata da tutta la popolazione. Conservatori, riformatori, di qualsiasi provenienza sociale, contro o a favore della Repubblica islamica, tutti stanno condividendo la foto di Soleimani sui loro profili Instagram».

Un eroe nazionale simbolo degli otto anni di guerra contro l’Iraq, a capo delle operazioni che hanno portato alla sconfitta dello Stato Islamico e la persona di contatto con Hezbollah in Libano e le varie forze irachene e siriane. Per questo, «l’Iran risponderà in maniera seria», chiarisce Mauriello.

Ansa/ proteste a Teheran per la morte di Soleimani

«L’Iran ha ufficialmente e formalmente una presenza militare di intelligence sia in Siria che in Iraq e in misura minore in Yemen e Afghanistan. È difficile dire dove colpirà, ma la sua profondità strategica gli permette di farlo praticamente ovunque».

L’Iran non potrà dunque esimersi dal rispondere ora che le carte sono state scoperte. Nella lunga e asfissiante dottrina di difesa asimmetrica dell’Iran è la prima volta che lo scontro si sposta in campo aperto: «Non è stata un’operazione di intelligence – sottolinea Mauriello – anche gli iraniani sanno dov’è il capo delle forze armate degli Usa in Iraq ma non per questo lo hanno ucciso». 

Da attore razionale, la risposta dell’Iran sarà ponderata ai suoi interessei come conferma Mauriello che ribadisce come Teheran sia «uno Stato molto complesso con persone quasi tutte sono sostituibili. Non parliamo di quattro persone che si riuniscono e gestiscono in maniera autoritaria un Paese completamente chiuso».

Un attacco mirato 

La seconda ipotesi è che l’Iran colpisca a livello mirato obiettivi americani. Nonostante una capacità strategica che si estende dal Mediterraneo all’Indo, l’Iran «risponderà in maniera proporzionale, colpendo proprio gli Stati Uniti, con target militari o di intelligence. Teheran non pianifica attentati, risponde con azioni di questa portata».

Gli Stati Uniti, con l’attacco diretto a Soleimani, hanno tolto la maschera. Abbandonate le guerre di procure ora Washington per la prima volta ha colpito in modo diretto il suo rivale di sempre in una regione in cui Trump aveva promesso di disimpegnarsi: «L’Iran si sente ora autorizzato a colpire formalmente militari americani. Il primo Paese che viene in mente è l’Iraq, ma può farlo anche in Afghanistan. Dove ci si fermerà? L’Iran sarà capace di fermarsi quando lo terrà opportuno. Il dubbio vero è sugli Stati Uniti» .

Il ruolo degli alleati

Dopo l’attacco alle petroliere saudite, formalmente non ancora rivendicato dall’Iran, la tensione della regione tra le due potenze rivali è considerevolmente aumentata, soprattutto in casa Riad che con l’ingresso in borsa di Aramco teme sempre più per i suoi interessi economici.

«Riad, e Adu Dhabi in particolare, che tra i due ha cercato più direttamente di colpire l’Iran, temono un’escalation nella regione e questa azione degli Usa non fa che aumentare le loro paure. L’ultima cosa che faranno l’Arabia saudita e gli Emirati sarà prendere iniziative».

A ovest invece è Israele a temere per la propria sicurezza. Il primo ministro Netanyahu è tornato con urgenza da un viaggio diplomatico in Grecia. «Dal punto di vista della propaganda in vista delle elezioni questo fa il gioco del premier uscente. Ma, in realtà c’è molta preoccupazione nella leadership che si aspetta delle ritorsioni».

Ma una certezza c’è: «L’Iran colpirà direttamente gli Stati Uniti e non i suoi “protetti”», chiarisce Mauriello. La strategia asimmetrica dell’Iran è sempre stata fino ad ora una spina nel fianco di Washington incapace di confrontarsi su linee di guerriglia non tradizionale. Gli interessi dell’Iran nella regione, a dispetto dell’attacco americano, continuano a essere la stabilità del Medio Oriente e dei suoi vicini.

«Prima l’Iran era circondata dai Talebani da una parte e dal regime di Saddam dall’altra. Oggi la profondità strategica dell’Iran arriva al Mediterraneo e al confine dell’India. Gli interessi dell’Iran sono sempre stati in realtà stabilità nella regione e fuoriuscita degli stati Uniti in maniera ordinata, non è nell’interesse dell’Iran una fuoriuscita totale. Quello che cerca è un multilateralismo. Non cerca di destabilizzare la regione».

La risposta degli Stati Uniti

L’azione di Washington ha scatenato l’ira del governo iraniano che altro non potrà fare se non rispondere all’attacco diretto al cuore della sua linea difensiva. Ma dall’altra parte quello che faranno gli Usa sarà «alzare la voce e inviare più truppe nella regione, truppe che saranno sempre più a contatto con la capacità dell’Iran di colpire».

Nei giorni scorsi il presidente Trump ha annunciato l’invio di nuovi soldati americani nella regione, e in particolare in Kuwait.

Il ruolo di Mosca e Pechino

Un altro scenario potrebbe vedere Cina e Russia dare una spinta all’Iran. Già da tempo Teheran è nell’orbita della Shanghai Cooperation Organization, quella che molti definiscono la Nato asiatica. Anche se non appoggiata da alleanza formali, la «Russia sembra decisa a continuare a fornire armi all’Iran – continua Mauriello – cosi come la Cina ad acquistare petrolio da Teheran». E Cina e Russia non hanno alcun interesse a non farlo. 

La politica interna

Se Khamenei grida vendetta, a fare le spese di questo ennesimo “tradimento” americano è l’attuale presidente Hassan Rouhani, sempre più indebolito da una politica di diplomazia e compromesso. Le elezioni parlamentari a febbraio di quest’anno prospettano una vittoria per l’ala più conservatrice e anti-americana: una vittoria dunque per quella frangia dell’establishment iraniano che tanto ha contrastato le aperture di Teheran a Washington.

Ansa/ Il presidente Hassan Rouhani al parlamento iraniano, 8 dicembre 2019.

«Rouhani ha fallito su molti fronti. Le sanzioni, l’economia in crisi e a livello di sicurezza, vista l’uccisione del capo delle forze quds sotto la sua presidenza», dice Mauriello che ricorda come il silenzio dell’Ue sull’accordo sul nucleare e il ritiro statunitense abbiano contribuito a questo clima. «L’Ue era il garante dell’accordo, un accordo che era stato considerato un successo della diplomazia internazionale e che ora è naufragato aprendo la strada a forze più radicali» .

Guerra aperta?

L’annuncio del politico e religioso sciita Muqtada al Sadr dell’invio in Iraq dell’ “esercito del Mahdi” è un segnale di una politica irachena pronta a scacciare gli Usa dal suo territorio. Impiegato durante la resistenza irachena contro l’invasione americana, il suo ritorno in patria segna «il fallimento della politica americana», dice Mauriello, come dimostrato dall’attacco a un’ambasciata ormai in rovina e vuota.

«Come faranno i militari americani a girare per l’Iraq? Gli Stati Uniti con questa mossa hanno spento le legittime aspirazioni sia di iracheni che di libanesi. Questa è la situazione: siamo in guerra».

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