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Cosa serve davvero ai giovani per trovare lavoro: alcuni buoni propositi per il nuovo decennio

04 Gennaio 2020 - 16:30 Giada Ferraglioni
Gli incentivi e le strategie di inserimento al lavoro come Garanzia Giovani non hanno avuto l'effetto sperato: quali sono i nodi (strutturali) da sciogliere per fare ripartire il mercato del lavoro

Gig-politic: si potrebbe definire così la strategia adottata in questi anni dai vari governi in Italia contro la disoccupazione giovanile. Una politica fatta di piccole riforme a scadenza, di incentivi a breve termine, di interventi cuscinetto mai inseriti in un progetto di revisione più ampio. Così come la gig-economy, l’economia dei lavoretti, ha contribuito a dare una sterzata spesso illusoria all’economia nazionale nei correnti anni di stagnazione, così la politica delle “riformette” e dei bonus si è nutrita di dati momentanei, basati su alcuni risultati a breve termine che non sono sopravvissuti alla prova del tempo.

«La ripresa registrata in questo ultimo anno nel nostro Paese ha voluto dire in larga misura un’impennata del lavoro povero», ha spiegato a Open Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil. «Si registrano meno ore lavorate, crescita dei livelli di part time involontario, aumento della precarizzazione dei rapporti di lavoro». Dati a dimostrazione di una società che, in questi anni di progressivo e costante invecchiamento, non si è dimostrata in grado di creare politiche attive che cavalcassero i mutamenti del lavoro e che si adeguassero alle nuove competenze dei neolaureati e ai nuovi ambiti del sapere e delle professioni.

Secondo quanto riportato da uno studio del Cnel, la forza lavoro delle aziende italiane è tra le più anziane al mondo. «I giovani sono l’anello debole del mercato del lavoro», scrivono dal Consiglio Nazionale. «Dopo la crisi, molti non sono rientrati nel mercato e l’occupazione giovanile ha registrato un calo di 400mila occupati dal 2008 (-28,8%) tra i 15 e i 24 anni». Fotografia di una società diseguale nella crescita e nello sviluppo, che ha visto rimanere indietro le aree geografiche del Sud. Di una società che non ha saputo togliere di mezzo la concorrenza sleale del lavoro nero, e che non ha saputo recuperare i miliardi di evasione fiscale a vantaggio degli investimenti per la formazione e l’aggiornamento. Il decennio della crisi è oramai alle spalle: è arrivato il momento di capire come uscire dalla stagnazione e come rimediare ai difetti strutturali della nostra politica economica.

Affrontare le trasformazioni del lavoro

Come ha osservato Scacchetti, in Italia la crisi economica si è instaurata su difficoltà già strutturali del nostro mercato del lavoro. «Da noi la disoccupazione è stagnante da anni, i salari medi (e non solo quelli minimi di cui si parla tanto) sono crollati», ha detto la segretaria. «Il problema principale sta nel fatto che non si sono capite le trasformazioni del mercato del lavoro». Un esempio di quanto affermato da Scacchetti arriva direttamente dagli ultimi dati sull’industria manifatturiera: pur restando il secondo paese europeo, l’indice pmi manifatturiero dell’Italia è scivolato a dicembre 2019 ai minimi da oltre 6 anni (una contrazione e 46,2 punti).

«Nella manifattura in crisi avevamo un certo tipo di lavoro: in larga misura maschile, a tempo indeterminato, full time», spiega Scacchetti. «Il lavoro che si è rigenerato non ha queste caratteristiche, e c’è bisogno che la politica faccia delle riflessioni su come vuole creare posizioni ad alto valore aggiunto, soprattutto per i giovani». Ma l’ambiente della manifattura è solo una fetta dell’intera torta: anche il settore pubblico, la formazione e l’istruzione sono stati a lungo trascurati come opportunità occupazionale. «Non basta affidare al mercato la ripartenza dell’economia», ha detto la segretaria. «Perché la storia ci ha dimostrato la sua fallibilità: rendere il lavoro più flessibile e meno vincolato da diritti e norme ha portato alle conseguenze fallimentari che vediamo oggi».

Investire nella formazione e valorizzarla

Foto d’archivio

Come si governa una fase di grande transizione? Come si interpreta e come si cavalca la fine di certi lavori e la comparsa di altri? «Bisogna avere uno sguardo sociale», dice Scacchetti. «Bisogna investire nella formazione per poter riorientare le persone ai nuovi lavori. Ma bisogna anche valorizzare chi una formazione completa ce l’ha già». Stando a quello che ci dicono i dati e i rapporti Istat e Eurostat degli ultimi anni, in Italia la maggior parte delle persone sono sotto inquadrate rispetto al loro titolo di studio e alle loro competenze.

«In Italia c’è un paradosso eloquente», ha commentato Scacchetti. «Da una parte il nostro Paese ha una media molto bassa rispetto a quella europea per numero di persone istruite; dall’altra abbiamo un numero enorme di persone sovraistruite che non riescono a essere inquadrati». «I giovani che noi prepariamo, che sono pochi rispetto alla media europea, non sono quasi mai valorizzati», continua Scacchetti. «Da qui gli alti tassi di emigrazione registrati». La ricerca stessa, se venissero recuperati i tagli imposti a partire dalla riforma Gelmini del 2010, potrebbe essere un ottimo bacino di assorbimento.

Il peso dei “lavoretti” nell’economia

Rielaborazione grafica di Open

Pur essendo una parte ancora relativamente piccola della nostra economia, quello dei “lavoretti” occasionali a intermittenza, in larga misura (ma non unicamente) scelti da under 35, è un lato dell’occupazione che cresce a una velocità esponenziale. «I rider sono quasi raddoppiati nell’ultimo anno e mezzo», dice Scacchetti. «Visto che non si sviluppa altro, il modello della gig-economy sta diventano l’unica opportunità per una serie di persone. Tanto che questo modo di lavorare – senza tutele e con scarsi diritti e sicurezze – rischia di essere il modello di lavoro il futuro».

Il problema di quello che è generalmente definito come lavoro autonomo (ma che in realtà corrisponde a una diversa forma di lavoro subordinato) è stato solo in parte affrontato dalla norma sui rider contenente nel decreto Salva Imprese. «I rider corrispondono solo al 10% dei lavoratori della gig-economy in totale». Affrontare la questione più sistematicamente e senza abbozzare piccole riforme parziali è fondamentale: spesso il lavoro occasionale (quello che ufficialmente non supera i 5mila euro annui) non porta con sé nessun tipo di tutela, a partire dalla sicurezza per la salute (e per la vita) e dalla certezza del salario.

«Parliamo di un “nuovo tipo di economia”, ma in realtà, per metodologia di messa a lavoro, è molto simile ai lavori dell’epoca fordista», dice Scacchetti. Con la differenza che, però, questi lavoratori sono decisamente più frammentati nelle categorie e nelle mansioni: «È difficile pensare a una rappresentanza perché è un lavoro sparso e differenziato».

Una rete sociale per i freelance

Un altro ambito che richiede un intervento urgente è quello del lavoro autonomo, che riguarda i cosiddetti lavoratori freelance. Secondo una stima Acta, l’Italia è al primo posto per rapporto percentuale tra liberi professionisti e occupati. Nonostante questo, le reti sociali di tutela sono ancora ai minimi. «Il ddl sul lavoro autonomo non ha mai avuto decreti attuativi», spiega Scacchetti. «Si parlava di malattia, maternità, diritto al riposo». Secondo la segretaria della confederale, una strategia per creare un sistema di tutele esisterebbe, basterebbe inserire le partite iva nei contratti collettivi e decidere quali tipi di tutele vanno garantite ai lavoratori a prescindere dal loro rapporto. «I freelance sono spesso soggetti a discontinuità lavorativa – continua – che andrebbe accompagnata da una serie di ammortizzatori e di tutele che garantiscano il futuro di chi lavora. Essere un lavoratore autonomo non significa dover scambiare la flessibilità con i diritti».

Una nuova vita per tirocini, stage e apprendistati

Che l’apprendistato sia un ottimo strumento poco utilizzato dal sistema delle imprese è opinione di molti teorici del lavoro, nonché un’evidenza dimostrata dai dati degli ultimi anni. Un altro fattore è anche la difficoltà con cui si riescono a stringere rapporti di lavoro continuativi al termine dell’esperienza, al quale va aggiunto lo scarso impegno che spesso le aziende impiegano dal punto di vista dell’attenzione alla formazione. «La formazione viene spesso considerata in antitesi al lavoro», dice Scacchetti. «E invece i tirocini e gli apprendistati sono una straordinaria opportunità di incrocio. Ma soprattutto, si tratta di un periodo di apprendimento: troppo spesso è utilizzato come se fosse impiego di pura manodopera, legalmente sfruttabile a costi a ribasso. Dinamica che sta impoverendo non poco il lavoro».

Riforme (strutturali) contro inattività

“Neet” (Not in education, employment or training) è uno dei termini entrati nel linguaggio comune dopo l’inizio della crisi economica nel 2008. Persone che non studiano, non lavorano e non seguono nessun percorso di formazione e rispetto ai quali, come testimoniato da Istat e Eurostat, l’Italia è al primo posto in Europa. Stando a un recente rapporto dell’Unicef italia, solo tra gli under 19 gli inattivi sarebbero circa 2.116.000 (il 23,4% del totale). «Tutti gli studi ci dicono che più è lunga e più è difficile rimetterle in gioco», dice Scacchetti. «Il primo tema è sicuramente trovare una strategia veloce che li rimetta sul mercato del lavoro».

Per far fronte all’emergenza, Scacchetti individua prima di tutto la necessità di incrementare il modello formativo: «Bisognerebbe creare un modello di formazione standard per tutti, mantenendo comunque dinamiche personalizzate per i diversi territori. Con lo scopo di rimettere in gioco gli inattivi provando a offrirgli occasioni di formazione e occupazione nel loro territorio». Le misure di intervento come quella di Garanzia Giovani, nome con cui è conosciuto in Italia un pacchetto di provvedimenti europeo mirato a favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, hanno fatto acqua da tutte le parti.

«Per quanto riguarda il bilancio a 6 anni dall’attivazione, il nostro Paese resta quello che in Europa ha visto più svolgimento di tirocini, la maggior parte non formativi, serviti solo per abbassare i costi di lavoro», spiega ancora Scaccetti. «Sarebbe invece meglio inserirli nella formazione, piuttosto che fare una semplice esperienza, spesso fine a se stessa». Un periodo di uscita dall’inattività, in qualunque forma lo si proponga nei limite del legale: «Va bene lo stesso, certo. Però non è questo lo strumento che risolve il problema dell’inattività, soprattutto se non supportato da altri percorsi a più ampio respiro».

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Foto copertina: Ansa, partecipanti al corteo della Fiom, 16 ottobre 2010, Roma

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