Tutte le occasioni perse dall’Ue per risolvere la crisi libica: perché la missione europea (se parte) rischia di non servire a nulla
Il prossimo otto gennaio il ministro degli esteri italiano, Luigi di Maio, era atteso al Cairo per un incontro sulla crisi libica. In un colloquio telefonico Di Maio ha ribadito alla sua controparte egiziana «l’attivo e comune impegno dell’Unione Europea in Libia per raggiungere una complessiva soluzione politica della crisi». Al tavolo sarebbero dovuti essere presenti anche Francia, Cipro e Grecia, interessati soprattutto a chiarire il dossier energetico.
Ma venti di guerra agitano non solo la Libia. Da Ovest a est, da Tripoli a Teheran, l’uccisione del generale Soleimani ha messo in luce ancora una volta la paralisi di un’Europa che si trova a fare da spettatore.
Nella crisi scatenata dagli Stati Uniti con il raid contro il generale iraniano, l’Europa ha atteso ore prima di far pervenire la sua risposta. Ma se i confini di Iraq e Iran sembrano fin troppo lontani da Bruxelles, la guerra in Libia è ed è sempre stata alle porte di casa.
Lo scacco matto di Erdogan
Nel Mediterraneo orientale la Turchia ha fatto per prima la sua mossa, annunciata da settimane, mandando truppe turche e jihadisti dalla Siria a sostenere la difesa del suo alleato al Sarraj – e il suo governo riconosciuto dalla comunità internazionale – contro la resa dei conti di Haftar. L’uomo forte della Cirenaica ha infatti intensificato i suoi attacchi sulla capitale, colpendo nelle ultime ore un’accademia militare che ha provocato 70 morti (anche se in giornata il portavoce del generale ha smentito il coinvolgimento).
Per provare a frenare lo scontro decisivo tra Haftar e Sarraj, il 7 gennaio sono attesi in Libia l’alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’Ue, Josep Borrell, con i ministri degli Esteri di Italia, Francia e Germania.
Ma il tentativo della missione europea potrebbe rivelarsi inutile. Bruxelles sta provando a tappare i buchi di una politica estera che negli ultimi mesi non ha mai trovato un accordo comune sulla Libia, divisa tra le rivendicazioni di Parigi, sempre più vicina ad Haftar e un’Italia incapace di rivendicare un ruolo primario di importanza strategica nel mediterraneo.
La debolezza europea dopo Gheddafi
La spedizione europea appare come un estremo tentativo di arginare una diga che è pronta a crollare. L’Europa ha infatti abdicato ad avere un ruolo già da molto tempo: da quando nel 2011 l’azione militare guidata dalla Nato, e fortemente voluta dalla Francia, ha messo fine al regime di Muammar Gheddafi. Da allora la Libia è precipitata in una guerra civile che nel 2014 è sfociata in una formale spartizione del Paese tra Haftar a ovest e Sarraj a est – quest’ultimo con il benestare della comunità internazionale.
Nessuna stabilità politica è stata ottenuta negli otto anni successivi all’intervento militare. Un intervento che ha invece distrutto l’apparato di sicurezza statale.
Ambizioni energetiche
Bruxelles, dopo un anno di continui combattimenti e avvertimenti tra Tobruk e Tripoli, è stata spinta all’azione solo quando, a dicembre, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato di voler entrare militarmente in Libia, ovvero reclamare un ruolo nel Mediterraneo dopo che Israele, Cipro e Grecia hanno tagliato fuori Ankara dalla corsa ai diritti di trivellazioni di petrolio e gas.
Il messaggio di Erdogan era chiaro: non avrebbe tollerato alcuna mossa mirata a escludere la Turchia dalla gestione delle risorse energetiche del Mediterraneo orientale. E così il Sultano si è fatto avanti, sfruttando quel vuoto politico lasciato dall’Europa e offrendo quella protezione che Sarraj si aspettava da Bruxelles.
L’invio di militari ha seguito così la firma di due protocolli tra il governo di Tripoli di Fayez al Serraj ed Erdogan, il primo relativo il riconoscimento della giurisdizione turca su un tratto di mare al largo del Mediterraneo; il secondo riguardante forme di cooperazione militare tra i due eserciti.
Libia: il nuovo fronte della competizione regionale
Erdogan ha voluto dare una risposta chiara a Grecia, Cipro, Israele, Egitto, Emirati e Arabia Saudita, con Ankara che aggiunge un nuovo tassello alla cooperazione già in atto con Qatar, Somalia, Sudan e Gibuti. Così facendo Erdogan ha aperto una nuova faglia nel conflitto Mediorientale, con Turchia e Qatar da un lato ed Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto dall’altro. La guerra per procura tra i due campi si sta svolgendo sia in Libia che in Siria con l’Europa che in entrambi gli scenari non è riuscita a nemmeno a trovare un’intesa su una politica comune.
Erdogan ha ora campo libero, così come Vladimir Putin che con il presidente turco sembra aver trovato un compromesso e un accordo per il futuro del Paese, per evitare di scontrarsi in campo aperto.
Il presidente russo ha inviato mercenari russi in Libia sempre sotto il naso di Bruxelles e trovato con Erdogan, partner strategico in diverse occasione, la quadra sul futuro di un Paese pronto a un ulteriore spartizione.
Gli attori coinvolti nell’intervento militare del 2011, dagli Stati Uniti, all’Onu, così come Paesi europei come Francia e l’Italia, hanno dimostrato la loro incapacità di mostrare una volontà risoluta favorendo queste trasformazioni geopolitiche in cui l’Europa non può trovare spazio.
Ora Bruxelles tenta la rincorsa disperata con la conferenza di Berlino sulla crisi libica prevista per la metà gennaio. Ma il destino della Libia è già deciso e l’Unione europea ha scelto il suo ruolo molto tempo fa.