Cooperazione energetica ed escalation in Libia: perché le due cose non possono essere scollegate
Da quando la Turchia e il governo di Tripoli (Gna) hanno firmato un accordo militare e marittimo lo scorso 27 novembre, la crisi libica è diventata interesse primario per buona parte dei Paesi del Mediterraneo Orientale. Grecia, Cipro, Egitto e Israele, vedendo minati i loro progetti di egemonia economica nell’area, hanno spinto l’acceleratore sui loro progetti di cooperazione energetica, esplicitati anni fa nel progetto del gasdotto Eastern Mediterranean (EastMed). Opera che è sua volta la motivazione dell’accordo tra Ankara e Tripoli. A spiegare a Open le correlazioni tra crisi libica e cooperazione energetica è Giuseppe Dentice, ricercatore associato presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), parte del progetto Mediterraneo e Medio Oriente. «L’accelerazione del conflitto libico – spiega – è dovuta in larga misura agli accordi stipulati tra Ankara e il governo di accordo nazionale di Fayez al Sarraj».
Gli ultimi sviluppi
L’8 gennaio, l’EastMed doveva essere l’ordine del giorno dei quattro Paesi che, insieme alla Francia, si sono riuniti in un vertice al Cairo organizzato per definire gli ultimi dettagli prima dell’avvio. Data la discesa rapida delle truppe turche in Libia, poi, e il continuo evolversi del conflitto, al vertice è stata invitata anche l’Italia, Paese interlocutore di al Sarraj e, in teoria, partecipe del progetto Poseidon (altro nome del gasdotto). Poco prima del summit, i due principali attori esteri in campo libico, la Russia e la Turchia, avevano anticipato sui tempi le strategie delle controparti. Dopo essersi incontrati anche loro per questioni energetiche (era in corso la cerimonia di inaugurazione del TurkSteam, il gasdotto che si estende tra Russia e Turchia), Putin e Erdogan hanno deciso per un cessate il fuoco in Libia a partire da domenica 12 gennaio.
Il ruolo dell’Italia
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, mentre Luigi Di Maio era impegnato nel vertice al Cairo, Giuseppe Conte ha chiamato a Roma il capo del governo di Tripoli (Gna) e il generale Khalifa Haftar. Ma, come dimostrato dal rifiuto di al Sarraj di presenziare all’incontro, la situazione libica ha radici troppo profonde per essere risolte dalla diplomazia (tardiva) italiana. Soprattutto se l’Italia è lo stesso Paese che si è tirato indietro da decisioni importanti, come quelle sulla cooperazione energetica nel Mediterraneo Orientale. Mentre Cipro, Grecia e Israele firmavano l’ultimo atto per dare il via alla costruzione del gasdotto, il governo italiano decideva di non schierarsi, né per il sì né per il no.
Come è ormai chiaro dagli schieramenti in gioco, la Libia è uno dei più importanti scenari geopolitici del momento. E, come per la sua risoluzione stanno contribuendo attori esterni, così alla sua repentina degenerazione hanno contribuito fattori geopolitici di fondamentale importanza.
L’intervista
Perché si sta tornando a parlare di gasdotto EastMed?
«Parlare di EastMed ha sempre senso, perché la verità è una: le questioni che hanno a che fare oggigiorno con la Libia si legano strettamente con quelle che attraversano il Mediterraneo Orientale.
Non a caso, l’accelerazione del conflitto libico è dovuta in larga misura agli accordi stipulati (a fine novembre, ndr) tra Ankara e il governo di accordo nazionale di Fayez al Sarraj. E, ancor prima, le azioni di Ankara sono dovute agli accordi di demarcazione marittima stipulati tra Israele, Egitto, Cipro, e Grecia, nonché ai loro tentativi di spartirsi le risorse del Mediterraneo orientale. Tutto questo è quindi una premessa necessaria per spiegare quello che succede oggi
In questo momento l’Italia si è fatta trovare impreparata: non è ancora ben chiaro se vorrà far parte di questo consorzio o se vorrà tirarsene fuori. Il governo italiano sta cercando allo stesso tempo di rimanere con un piede dentro e con un piede fuori. Per politica, noi parliamo sempre con tutti. Rischiamo però spesso di non agire e di rimanere a guardare».
Qual è la posizione dell’Italia oggi? E come si è evoluta nel corso degli anni?
«Dal 2017 ad oggi, anno in cui l’ex ministro Carlo Calenda firmò il memorandum del progetto, la situazione si è evoluta rapidamente. L’Italia, però, è sempre rimasta a guardare, stretta tra fazioni politiche che hanno scelto di non agire.
Durante il governo gialloverde, i Cinque Stelle hanno agito tendenzialmente in senso contrario all’opera, anche per non rimanere schiacciati ulteriormente dalla battaglia attorno al Tap. La Lega, invece, era tendenzialmente favorevole a procedere lungo la linea tracciata dai governi Renzi-Gentiloni.
Ora, di fatto, siamo in una situazione in cui l’Italia è rimasta a guardare, mentre gli altri si sono dati un gran da fare. Egitto, Isreaele, Cipro e Grecia stanno lavorando insieme per definire una piattaforma informale di cooperazione energetica, che ha dei riflessi politici e geopolitici di grandissimo peso.
Una situazione che si collega anche con i rapporti con la Turchia, e con le scelte che quest’ultima ha fatto nelle scorse settimane. La crisi libica è una conseguenza strettamente legata a quanto successo precedentemente in questo senso».
Il ruolo della Francia, che ha partecipato al vertice del Cairo, dimostra questo collegamento tra cooperazione energetica e crisi libica?
«La Francia è apparentemente nelle seconde file dei Paesi interessati al Mediterraneo orientale e centrale, ma è in realtà in pole position. La Francia è coinvolta in tutto e per tutto e segue le vicende con attenzione: sa bene che la questione libica e gli accordi del Mediterraneo Orientale hanno una stretta correlazione, soprattutto dal punto di vista energetico.
Il ruolo di spicco che potrebbe avere nei prossimi anni è dovuto anche all’atteggiamento immobilista dell’Italia: la Francia appoggia sì Egitto (che in Libia corrisponde alla fazione di Haftar, ndr) e Israele, ma sta anche definendo una sua propria strategia per sostituirsi al nostro Paese in quelle aree geopolitiche».
Nella stessa giornata del vertice al Cairo, si è tornati per altri motivi a parlare di Tap (Trans Adriatic Pipeline). Quanto il rapporto del M5s con questo gasdotto influenzerà le mosse sull’EastMed?
«Credo che in linea di massima le due cose non siano collegate. Quello che è palese è che noi continuiamo a perderci in chiacchiere, mentre gli altri fanno i fatti. Mentre noi ci concentravamo sulle dinamiche interne al governo, il resto d’Europa (e non solo) era attivo sul fronte geopolitico.
I nostri governi sono stati lenti a dare risposte, anche solo di facciata. Mentre i ministri degli esteri di Francia Germania e Regno Unito hanno emesso comunicati congiunti contro l’escalation di violenze in Libia, e tra Iran e Usa, il nostro Paese è stato molto più lento, anche solo a invitare pubblicamente al dialogo. E ora è difficile, anche invitando i leader libici in Italia, che le parti possano risolvere tutto con il solo dialogo».
Dal punto di vista ambientale, che impatto avrebbe l’EastMed? queste opere?
«EastMed è un gasdotto sottomarino. La parte terrestre interessa solo alcune zone di Creta e di Cipro. Sul fronte italiano, le tubature si ricollocherebbero in parte a quelle già esistenti del Tap (come dichiarato dallo stesso Giuseppe Conte ad aprile 2019, ndr). Non si dovrebbero avere nuove condizioni di scavi o nuove ossature di tubazioni. L’impatto ambientale potrà esserci*, non è da escludere, ma mi sento di dire che non sarà così determinante.
Poi certo, dipende sempre da quello che ci interessa ricercare. Se vogliamo fare polemica su ogni singolo cavillo senza arrivare a un punto è un contro, se si vuole cercare di fare polemiche finalizzate a dei progetti diversi allora è un altro».
*Il 7 gennaio 2020 è iniziato il processo a carico di 19 persone, tra cui i vertici della multinazionale Tap, imputati per presunti abusi negli espianti di ulivi e all’inquinamento delle acque sotterranee.
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