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“Sorry we missed you”, il film di Ken Loach sulla vita dei corrieri. Lo abbiamo visto con uno di loro

11 Gennaio 2020 - 09:52 Giulia Marchina
Luca ha 41 anni e lavora come corriere. Le sue reazioni nel vedere la sua professione raccontata sullo schermo

«Don’t think and drive», ovvero «Non pensare e guida». La frase è scritta su un quadro che sporge appena dall’inquadratura durante una scena del nuovo film di Ken Loach, Sorry we missed you.

Il titolo è un riferimento al messaggio che viene lasciato – nei Paesi anglosassoni – nella buca delle lettere dai corrieri che non trovano nessuno in casa cui consegnare la merce.

Una frase che si potrebbe tradurre con «Ci dispiace, non ti abbiamo trovato», ma anche con «Scusaci, ti abbiamo perso di vista». Il titolo non è casuale così come non è un caso se tutta la storia ha come protagonista una famiglia i cui genitori arrancano nel loro lavoro, tra turni senza fine e paghe misere. Gente che il mondo sembra, appunto, aver perso di vista.

Luca, 41 anni e una vita da corriere

Siamo andati a vedere il film al cinema con Luca, 41 anni, tre figli, di Torino ma che da dieci anni vive a Roma, e che di mestiere fa il corriere – come il protagonista maschile del film – per capire che effetto faccia rivedersi sul maxi schermo.

«È farsi una violenza venire a vedere un film del genere, un pugno allo stomaco. In molti passaggi mi è sembrato di vedere scorrere il film della mia vita», dice, mentre ci racconta che quello di Loach è stato un perfetto lavoro documentaristico, che non fa sconti a nessuno.

La storia è quella di una coppia di New Castle, Ricky e Abby, sposati e con due figli, Sebastian e Liza Jane. La crisi economica del 2007 li mette in grosse difficoltà, tanto da spingere lui a vendere la macchina della moglie – che per lavoro assiste anziani e malati – per poter acquistare un furgone e iniziare così l’attività di driver per la Pdf, una grossa società che effettua consegne a domicilio.

Da lì è una parabola discendente verso il baratro professionale: Ricky viene abbindolato sin da subito, con la promessa di poter lavorare come lavoratore autonomo: gestirà i tempi di consegna, avrà una vettura tutta sua, lavorerà “con” l’azienda di consegne e non “per”.

La verità è che di autonomo c’è ben poco: quello che rimane è lavoro a cottimo, paga insufficiente, orari massacranti e una situazione famigliare sull’orlo del fallimento.

«Tutti ti infinocchiano così», racconta Luca. «Sei convinto di essere davvero indipendente, ben presto però ti accorgi che le cose sono diverse. Nel migliore dei casi – come nel film – dovrai rispondere al “cattivo”, il capo del reparto che pretende di metterti sotto come fossi una bestia da soma. Nel peggiore dei casi risponderai a un algoritmo, a una macchina, un androide».

In uno dei passaggi iniziali del film, un collega di Rick gli porge una bottiglia di plastica prima di iniziare il turno di lavoro: «Scusa e questa a che mi serve?», dice. «Ti servirà quando dovrai pisciare e non avrai tempo per farlo», gli risponde l’uomo. «Non siamo distanti dalla realtà», commenta Luca.

Loach non dà tregua. Per quasi due ore, con un ritmo incalzante inanella una dopo l’altra le “situazioni tipo” di un corriere. Per Luca la descrizione del regista è perfetta, tiene incollati allo schermo ed è brutale.

«Senza voler spoilerare, posso dire che dai drammi per le ore che siamo costretti a lavorare, fino agli screzi coi clienti e alle aggressioni – io, ad esempio, lavoro portandomi dietro spray al peperoncino e martello perché mi è capitato di tutto – questo film è un resoconto preciso di cosa siamo costretti a subire».

Diversamente dal destino del protagonista, però, Luca a un certo punto ha imboccato una strada diversa: «Per colpa di questo mestiere mi stavo ammalando, perdevo di vista le cose importanti. Quindi ho dovuto fare una scelta, e così ho rallentato. Non ho più permesso che il lavoro mi assorbisse in modo totalizzante».

Alla fine chiediamo a Luca chi, secondo lui, dovrebbe sedersi in sala a vedere il film: «Andrebbe visto da chi ha creato questo modello di lavoro, ma anche da chi non è del settore. Che sia una presa di coscienza per i clienti, per vedere quello che non vedono: cioè cosa accade dietro le quinte».

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