Università, come si preparano docenti e ricercatori per i bandi internazionali? Il caso della Ca’Foscari – L’intervista
Visto il prestigio e le ingenti somme di denaro legate ai finanziamenti europei per la ricerca – noti come ERC (dal Consiglio Europeo della Ricerca) – e visto che esistono da oltre dieci anni, ci si aspetterebbe che le università italiane fossero equipaggiate per preparare al meglio i propri docenti e ricercatori ad affrontare questa prova, ad agguantare il premio e portarlo a casa dando una mano a sé, al proprio ateneo e anche al sistema universitario italiano – che, come è noto, soffre la carenza di finanziamenti.
Ma non è così. Complice anche una certa ostilità di una parte del mondo accademico italiano, che vede nei finanziamenti Ue non una straordinaria opportunità per rinnovarsi, ma un mostro pericoloso che rischia di scardinare il modello accademico attuale, con le sue gerarchie e i suoi delicati equilibri.
In calo le borse di studio Erc vinte dai ricercatori in Italia
Che le università italiane formino ricercatori capaci e prolifici è certo, e a dirlo sono i dati. È altrettanto certo, però, che fatichino a trattenerli dopo che hanno vinto una delle prestigiose borse. Se andiamo a vedere i dati dell’ERC, sono 558 i progetti italiani finanziati: circa la metà della Francia e circa un terzo della Germania.
Meglio di noi anche la Svizzera, il Regno Unito, la Spagna e i Paesi Bassi. Gli ultimi dati – per il 2019 (bando 2018) – confermano questa tendenza, ma al negativo: cala il numero di italiani vincitori di starting grant, i finanziamenti ai giovani ricercatori, a 37 contro i 42 nel 2018, e si sono dimezzati i più prestigiosi consolidator grant di 2 milioni di euro per 5 anni, passati da 15 a 7.
Anche in Italia però ci sono atenei che con regolarità producono risultati positivi e che hanno investito in modo strategico nella formazione dei propri docenti e ricercatori per prepararli a competere e ottenere i finanziamenti. È il caso – ma non è l’unico – dell’Università Ca’Foscari di Venezia, che può vantare l’unico consolidator grant in Italia per un progetto in una disciplina umanistica, vinto con il bando del 2019 dalla classicista Olga Tribulato, “cervello in fuga” tornato in Italia dopo docenze presso le università di Oxford e Cambridge.
L’esempio della Ca’Foscari: 11 milioni di euro in finanziamenti europei
Da quando l’ateneo veneto ha investito nei corsi di formazione per i bandi internazionali, tra cui gli ERC, ha ottenuto oltre 11 milioni di euro in finanziamenti europei, al netto di investimenti complessivamente inferiori a un milione di euro.
«Sulla Marie Curie [i finanziamenti ispirati alla scienziata franco-polacca vincitrice di due premi Nobel ndr] siamo la più remunerata istituzione in Italia», spiega il Rettore Michele Bugliesi, anche lui un “cervello in fuga” rientrato in Italia dopo un master negli Stati Uniti e il dottorato a Parigi.
«L’ultimo bando ERC è stato un po’ una “Caporetto” per l’Italia, perché ne abbiamo vinti pochi effettivamente – ammette il Rettore, che aggiunge – «l’attenzione ai finanziamenti europei è un terreno sul quale le università italiane si stanno muovendo. Noi siamo stati abbastanza in prima linea in questo campo».
Come preparate docenti e ricercatori per fare domanda ai grandi bandi europei come gli ERC?
« Abbiamo costituito un’unità interna all’ateneo con lo specifico compito di supportare la progettazione europea, sia quella relativa ai bandi cooperativi, sia per la preparazione di grant individuali. Sono varie unità di personale, reclutate come tecnologi, con dottorati, ovvero persone con profilo scientifico molto elevato e capacità di project management. Si tratta di un’unità che abbiamo attivato quattro anni fa e che si è rivelata estremamente efficace»
In cosa consiste la preparazione?
« Innanzitutto, aiutano il ricercatore a declinare un’idea in termini di progettazione, secondo le linee di finanziamento e che quindi conduca a un progetto coerente con quelle stesse linee. Per gli ERC e i Marie Curie abbiamo tutta una serie di iniziative a attività che preparano alle fasi successive: prima c’è la fase di progettazione e poi, nel caso in cui i progetti superino la prima valutazione, facciamo delle prove per i colloqui. Ma la formazione inizia già dal dottorato e dal post-doc: si illustrano i bandi, si insegnano a leggere i bandi e a strutturare le proposte dando le linee guida. Ma l’attività più importante è, secondo me, dare sostegno alla traduzione dell’idea in un progetto. Cattive idee non producono buoni progetti, ma a volte anche le buone idee – se veicolate male – possono anche condurre a pessimi progetti»
A lei sembra che stia davvero facilitando il rientro dei “cervelli in fuga”?
« Sì e no. Noi abbiamo reclutato 13 ERC, di cui 5 sono “nati” qui e 8 vengono da istituti esteri, ma vengono da fuori perché riconoscono nella nostra capacità di sostenere la ricerca che portano con sé, un valore aggiunto. Un po’ di deficit strutturali nella capacità di attrarre le persone questo Paese ce l’ha. Ma abbiamo fatto, in questi anni, significativi investimenti per fare rientrare le persone, a Ca’Foscari circa una decina all’anno. Così il sistema italiano si sta attrezzando in questo. Noi per esempio offriamo fondi di “primo insediamento” per chi porta con sé un finanziamento. È molto efficace nella nostra esperienza, il decreto sulla internazionalizzazione che riconosce degli sgravi fiscali ai nuovi “rimpatriati”. Non è un dramma se poi il 50% torna via: si sottovaluta anche l’input positivo che la permanenza di 5 anni delle persone può avere. E poi la mobilità è un fatto della vita».
Come nel suo caso: lei ha cominciato la sua carriera all’estero per poi tornare in Italia. Come ne ha beneficiato?
«Mi ha permesso di sperimentare sistemi educativi diversi, di verificare anche il valore aggiunto del modello americano e francese dove c’è una diversità di popolazione accademica e di esperienze, una varietà di sistema che in seguito ho cercato di ricreare nella mia professione. È essenziale essere aperti e cercare le persone di maggior valore. Un’università che è figlia solo dei propri allievi, delle proprie scuole, è un’università che tende a isolarsi»
Quindi non vede dei rischi associati a queste forme di selezione e all’ingresso di ricercatori muniti di finanziamenti così massicci?
«Non dev’essere l’unico strumento, deve essere affiancato da altri. Ma per attrarre persone dall’estero è l’unico possibile: i nostri meccanismi sono così farraginosi che una persona abituata a qualcos’altro non può pensare di sottoporvisi. E, come ha dimostrato l’esperienza di questi ultimi anni, ha portato in Italia una quantità di persone che altrimenti non sarebbero venute. Ci siamo arricchiti notevolmente e ne sono felice. In Italia ci sono poche risorse e un sistema in cui ogni innesto di persone nuove sottrae risorse ( i cosiddetti “punti organico”) da impiegare per fare progredire la carriera delle persone interne. Si tratta di una situazione paradossale, e solo italiana, resa ancora più critica dalla scarsità delle risorse»
Quali sono questi meccanismi?
«In Italia abbiamo un sistema universitario che è molto efficace, sia per quanto riguarda la qualità della formazione che eroga, sia per la qualità della ricerca che sviluppa. La fuga dei cervelli è anche espressione di questo. Ma ci sono dei meccanismi un po’ antiquati nella gestione amministrativa così come nel reclutamento, a mio modo di vedere, che ingessano le strutture. La responsabilizzazione delle strutture nel reclutare le risorse migliori, lasciando il giudizio a valle dei risultati, è un meccanismo che in Italia purtroppo fa ancora fatica a passare; il reclutamento è lasciato alla valutazione comparativa e affidato alle commissioni di concorso, in modo spesso decontestualizzato rispetto alle strutture che poi reclutano»
L’articolo è stato modificato nella seconda, quinta e sesta risposta del Rettore per chiarirne il contenuto
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