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Taglio del cuneo fiscale, al governo si litiga ancora sulle tasse in busta paga. L’esperto: «Non si risolve così il problema della disoccupazione» – L’intervista

15 Gennaio 2020 - 07:46 Felice Florio
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Movimento 5 stelle e Partito democratico litigano sulla natura del provvedimento. Abbiamo chiesto a Rota Porta, consulente del Lavoro, di inquadrare la questione del cuneo fiscale nell'ecosistema di problemi che indeboliscono il mondo del lavoro italiano

L’argomento è ostico e, intorno a esso, si gioca l’immagine della legge di Bilancio approvata dalla maggioranza di governo. Nella manovra, tre miliardi sono stati destinati al taglio del cuneo fiscale. Sarebbe già pronto un provvedimento in questo senso, che in realtà più che ridurre il costo del lavoro andrebbe ad allargare la platea di lavoratori che riceve il bonus di 80 euro mensili introdotto dal governo Renzi: uno strumento non propriamente fiscale, che ha creato non poche distorsioni al sistema.

Se oggi il bonus è percepito dai lavoratori che guadagnano meno di 26 mila euro annui, la misura proposta dal Partito democratico estenderebbe la platea a quei dipendenti che percepiscono fino a 35 mila euro. La road map del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri prevedeva l’annuncio della misura al termine del conclave del Pd nell’Abbazia di Contigliano, tra Rieti e Greccio. Venerdì 17 gennaio è previsto un tavolo di lavoro per discutere del tema con i sindacati e, a fine mese, la proposta dovrebbe arrivare in consiglio dei ministri.

Non poteva filare tutto liscio: a irrompere nella programmazione prevista dal ministro del Partito democratico, oltre alle critiche dell’opposizione, ci sono state le dichiarazioni della vice-ministra dell’Economia 5 stelle, Laura Castelli. «Il taglio del cuneo fiscale e quello dell’Irpef devono viaggiare insieme», ha detto Castelli, dicendosi sicura che «Gualtieri incontrerà i 5 stelle per condividere una linea unitaria». Traduzione dal politichese? Sul tema del lavoro devono avere voce in capitolo anche i parlamentari del Movimento, anche perché non c’è nessuna urgenza di fare un decreto a gennaio per una misura che partirà a luglio.

La tensione tra Pd e M5s non ruota solo intorno alla paternità delle misura per i lavoratori. Per i dem è più semplice e di impatto visivo nella busta paga mantenere il bonus Renzi. Convertire il bonus in detrazione da lavoro dipendente sarebbe un’operazione difficile perché, nel caso di alcuni redditi sotto i 15 mila euro, c’è il rischio che la detrazione si trasformi in imposta negativa. A livello numerico, il governo ha annunciato che i lavoratori nella fascia d’intervento riceveranno circa 500 euro medi annui in più nel 2020 e 1000 euro nel 2021. Non sembrano sufficienti le risorse per il taglio del cuneo conservando queste cifre.

I 5 stelle, attraverso le parole di Castelli, spingono affinché il bonus degli 80 euro si trasformi in detrazione, ovvero uno strumento fiscale organico e in grado di condizionare anche l’Irpef, con la revisione delle aliquote. Se il bonus restasse tale, l’operazione per cambiare le aliquote necessiterebbe di un’altra discussione a parte e di un altro provvedimento. Sulla rimodulazione dell’Irpef, oltre ai 5 stelle, stanno facendo pressione il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, in un’altra maniera, i sindacati.

Ma quali sono gli effetti del taglio del cuneo fiscale sul mondo del lavoro, sui giovani e sulla crescita economica italiana? Alessandro Rota Porta, esperto in materia di Lavoro, sostiene che «la discussione in corso nel governo non darà nessuno stimolo all’occupazione».

Dott. Rota Porta, esiste un parallelismo tra riduzione del cuneo e aumento dei posti di lavoro?

«No, quantomeno con riferimento alla misura a cui sta pensando il Governo, attraverso l’emanazione di un decreto attuativo che sblocchi le risorse inserite ad hoc nella legge di Bilancio. Pensare in questi termini sarebbe fuorviante, appunto, perché l’intervento del governo mira a ridurre il carico fiscale solo lato lavoratori, senza alcun alleggerimento per le imprese. Quindi, nessuno stimolo all’occupazione».

Imprese o lavoratori, chi ne giova di più da un taglio del costo del lavoro?

«Un taglio del costo del lavoro gioverebbe indubbiamente alle imprese, perché spenderebbero meno per sostenere gli oneri delle risorse impiegate. Meglio ancora se il taglio fosse generalizzato e non mirato a specifiche e limitate platee di lavoratori, come avvenuto in passato con scarsa efficacia di risultati».

Disoccupazione e working poor: quali misure, oltre alla riduzione del cuneo fiscale, si devono adottare per risolvere questi fenomeni?

«Occorre partire da lontano, ad esempio, rendendo i percorsi scolastici più inclini alle soft skill e vicini alle esigenze del mercato del lavoro: formazione e riforma delle competenze sono ingredienti indispensabili, oltre a una connessione tra scuola e lavoro più efficace.

Non dimentichiamo il sistema di politiche attive, che – di fatto – nel nostro Paese esiste pressoché esclusivamente grazie al sistema privato delle Agenzie per il lavoro: i recenti dati sulla rioccupazione dei percettori del reddito di cittadinanza parlano chiaro e ci dimostrano come il sistema pubblico oggi non sia in grado di ricollocare gli inattivi ma, come accade nel caso dei giovani, neppure di portare dentro al mercato del lavoro le nuove leve».

Sino a oggi quali sono state e che efficacia hanno avuto le misure per favorire il lavoro giovanile?

«I percorsi di alternanza tra scuola e lavoro stavano dando buoni risultati, ma i fondi a essi riservati sono stati contingentati. Se dovessi indicare una misura in particolare, forse il progetto Garanzia giovani, di derivazione europea, è stato un buon volano, ma da solo insufficiente a produrre una vera svolta nel rilancio dell’occupazione in questo specifico settore».

Focalizzandoci sui giovani, quali sono secondo lei le riforme più urgenti per incentivare il loro ingresso nel mondo del lavoro?

«Più che di riforme, servirebbero misure semplici e strutturali che possano sgravare il costo delle imprese che assumono questi soggetti. Ma, ripeto, la soluzione deve passare, prima ancora, dai percorsi scolastici (e dalle scelte dei giovani nei loro indirizzi di studio): non è possibile leggere quotidianamente di imprese che ricercano numeri anche elevati di manodopera senza successo pensando all’elevato tasso di disoccupazione giovanile.

Significa che manca il collegamento tra i profili che le aziende ricercano e le competenze che sforna la scuola; lo dimostra il fatto che in alcuni ambiti, come quelli tecnici, la quasi totalità degli studenti diplomati dagli Its trovi occupazione molto più facilmente, proprio perché il percorso formativo è aderente alle imprese a cui gli istituti si rivolgono».

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