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Classificare le scuole basandosi sull’estrazione socioeconomica degli alunni è un errore. Ecco perché

16 Gennaio 2020 - 06:54 Felice Florio
Il presidente dell'Associazione nazionale dei presidi del Lazio e la segretaria nazionale della Flc Cgil commentano a Open la vicenda della scuola romana che si presenta classificando gli alunni in base al loro ceto sociale

«La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana; il plesso di via Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo, accoglie, invece, prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie, come colf, badanti, autisti e simili». Fa specie leggere sul sito ufficiale di una scuola pubblica una presentazione di questo tipo. L’istituto comprensivo “Via Trionfale”, a Roma, è al centro delle polemiche per il testo pubblicato sul proprio sito. La ministra della Scuola, Lucia Azzolina, ha criticato fortemente la scelta dell’istituto: «Descrivere e pubblicare la propria popolazione scolastica per censo non ha senso». La preside dell’istituto, dopo che tutta la stampa nazionale ha parlato della vicenda, ha dato mandato di rimuovere la descrizione dal sito.

La difesa dell’istituto

Per il consiglio d’istituto di “Via Trionfale” non c’era nessun intento discriminatorio, ma solo una «mera descrizione socio-economica del territorio». L’istituto, in una nota, non parla di “errore”, ma preferisce comunque procedere alla modifica perché quel passaggio si presta a interpretazioni sbagliate. «L’istituto non ha mai posto in essere condotte discriminatorie – chiosa il consiglio -, sono i genitori, al momento dell’iscrizione dei propri figli, a scegliere uno dei quattro plessi scolastici».

La posizione di Anp e Flc Cgil

Non è d’accordo Mario Rusconi, il presidente di Roma e del Lazio dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi: «Ma quale mera descrizione socioeconomica. Mi devono spiegare allora quali strumenti scientifici e sociologici sono stati usati per definire l’utenza di quelle scuole. Non mi pare che “alta borghesia” sia una categoria sociologica con un fondamento», racconta a Open. Manuela Calza, segretaria nazionale della Flc Cgil, ribadisce che «è inopportuno pubblicizzare le caratteristiche dei plessi di una scuola evidenziando le differenze socioeconomiche».

L’obbligo di pubblicazione del Rav

«Leggere parole come queste sul sito di una scuola fa orrore. Ma è molto più complicato e più grave di come sembra – scrive Claudia Pratelli, assessore alla scuola del terzo municipio di Roma. E spiega il contesto normativo nel quale è avvenuta la pubblicazione della descrizione incriminata. «Quello che leggete fa parte del Rav, il rapporto di autovalutazione, che le scuole sono obbligate a compilare e pubblicare sul sito. Questo Rav chiede di descrivere il contesto e la composizione sociale della scuola. Precisamente chiede di delineare limiti e opportunità del contesto sociale. È scelta delle dirigente e del nucleo di valutazione, deputati a compilarlo, valutare quali siano i limiti, quali le opportunità e quali parole scegliere. Non è una scelta ma obbligatorio, invece, pubblicarlo sul sito».

Mario Rusconi, Anp, a Open: «Un errore, ma non è colpa della preside»

«Conosco personalmente la preside – assicura Rusconi -. Per farvi capire chi è la persona che stanno attaccando tutti, vi racconto un episodio. Ai tempi in cui Alemanno era il sindaco di Roma, ci fu una polemica tra il primo cittadino e la preside proprio sulla questione delle scuole troppo multiculturali: la preside dirigeva uno di questi istituti di periferia e, allora, difese a spada tratta la composizione del suo plesso».

Come è possibile, allora, che sul sito dell’istituto “Via Trionfale” sia apparsa quella descrizione?

«Credo che la preside abbia delegato a qualcuno la compilazione della presentazione della scuola. In maniera incauta, questa persona ha pensato che, scrivendo e sottolineando quegli aspetti, avrebbe fatto un servizio alla scuola. Quando si compilano le presentazioni delle scuole, bisogna essere particolarmente accorti e usare strumenti sociologici adeguati. In questo caso, non c’è nessuna aderenza scientifica dei termini “badanti”, “colf” o “alta borghesia”».

Non le sorge il dubbio che siano stati adoperati per condizionare le iscrizioni delle famiglie?

«Certo, scritti in quel modo servivano per indirizzare le famiglie verso un plesso o l’altro. È anche vero che, a causa della mancanza di fondi, esiste nel periodo delle iscrizioni una dinamica per la quale le scuole competono per accaparrarsi più studenti e quindi più soldi. E non possiamo colpevolizzare i presidi se i soldi per le loro scuole scarseggiano. Ma resta il fatto, grave, che una descrizione della scuola, scritta in quel modo, va contro ogni aspetto inclusivo dell’istruzione. Quando si parla di scuola, separare è contrario a ogni principio formativo. Includere, invece, è la risposta: anche perché è dimostrato che il lavoro degli insegnanti migliora se operano in un contesto composito, culturalmente ed economicamente».

Quindi non è giustificabile quella presentazione con l’obbligo di pubblicazione del Rav?

«No, certo che no. Il rapporto di valutazione va redatto e pubblicato, ma deve essere stilato su basi scientifiche. Parlare di borghesia, ceti sociali, non ha basi scientifiche. Ripeto, per giustificare quei termini i responsabili di quel testo dovrebbero spiegare anche gli strumenti di rilevazione adoperati. L’obbligo della pubblicazione del Rav non deve mai tradursi in un testo che evidenzia in modo così rozzo la differenziazione socioeconomica degli studenti».

Manuela Calza, Flc Cgil, a Open: «Dubbi sull’opportunità di pubblicare risultati Invalsi e Rav»

«Siamo perplessi rispetto alle pubblicazioni dei rapporti Invalsi e delle autovalutazioni. Questa vicenda mette in luce le criticità di questa pratica: se utilizzati in modo distorto, questi documenti possono contribuire a creare delle classifiche. Sia chiaro, Invalsi e Rav sono strumenti che devono esistere perché utili alle scuole per operare una sorta di riflessione per migliorare il proprio piano formativo. Ma rischiano di diventare il pretesto di alcune scelte, soprattutto per le famiglie, che nulla hanno a che vedere con l’offerta formativa».

Il rischio di creare scuole di Serie A e di Serie B è dietro l’angolo.

«Vero. Ribadisco con forza che è inopportuno pubblicare le caratteristiche dei plessi di una scuola evidenziando le differenze socioeconomiche degli alunni. La scuola, una delle istituzioni più importanti nel sistema Paese, un presidio costituzionale, è chiamata a educare la cittadinanza. La scuola è il primo attore che aiuta a costruire la cultura democratica dei cittadini, e ciò avviene formando tutti i ragazzi, a prescindere dall’estrazione sociale, alle pari opportunità e diritti».

Ha parlato di presidio costituzionale, in che senso?

«I valori costituzionali sono presenti nell’agire quotidiano dei docenti. La scuola è un laboratorio permanente di cultura e integrazione. Purtroppo, le scuole spesso riflettono le politiche abitative: l’utenza degli istituti è influenzata dalla ghettizzazione in atto nelle città. Ci sono quartieri in cui vivono solo determinate categorie sociali e ciò si riverbera sulla scuola. Ma bisogna affrontare il problema, non sottolinearlo come caratteristica nella presentazione di un’istituto. Anzi, lo sforzo va fatto affinché la composizione delle classi scardini gli schemi sociali che resistono all’esterno».

Anzi, ci sono evidenze che mostrano come gli ambienti multiculturali esprimano le energie migliori.

«Confermo: l’eterogeneità non è solo un valore. Le migliori esperienze di sperimentazione didattica, che favoriscono il successo formativo degli alunni, avvengono dove le differenze nella composizione dei gruppi classi sono forti e dove gli insegnanti riescono a valorizzare quelle esperienze divergenti. Il superamento di metodi tradizionali è più diffuso nelle scuole dove si presentano queste differenze: è qui che nascono percorsi per individualizzare la formazione e garantire a ciascuno l’espressione massima delle proprie qualità».

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