Migranti, in che stato sono i Cpr in Italia?
La morte di Vekhtang Enukidze, sulla quale indaga la procura di Gorizia, ha riacceso i riflettori sullo stato del sistema di accoglienza e detenzione dei migranti e richiedenti asilo in Italia. Sul decesso del 38enne georgiano, la procura ha aperto un fascicolo per omicidio volontario a carico di ignoti. Enukidze ha avuto un malore ed è morto dopo che gli agenti di polizia sono intervenuti per sedare una rissa scoppiata nel Cpr di Gradisca.
Cosa sono i Cpr?
Noti in precedenza come Centri di permanenza temporanea (Cpt) e successivamente con la denominazione di Centri di identificazione ed espulsione (Cie), i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) fanno parte della rete di strutture usate per identificare e deportare dal territorio italiano i “migranti irregolari”, ovvero le persone straniere non dotate di un permesso di soggiorno valido. Nei primi 6 mesi del 2019 sono stati trattenuti nel Cpr 2.267 persone, di cui 1.022 effettivamente rimpatriate pari al 45% (dati aggiornati al 20 giugno 2019).
Quando le strutture sono state create nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, la reclusione delle persone straniere da identificare o in attesa di espulsione era al massimo di 30 giorni. D’allora è stata progressivamente criminalizzata la permanenza sul suolo italiano di “migranti irregolari” (per esempio con il reato di clandestinità introdotto nel 2009) ed è stata allungata la permanenza nei centri creando una situazione dove una persona può essere detenuta per mesi pur non avendo compiuto alcun reato.
Il piano Minniti prevedeva l’apertura di Cpr in ogni regione. Al momento dell’adozione del Decreto legge del 2017 i Cpr operativi erano quattro, a Torino, Roma-Ponte Galeria, Caltanissetta e Brindisi. Successivamente ne sono stati aperti altri: a Trapani, Bari, a Palazzo San Gervasio, nella provincia di Potenza, a Macomer in Sardegna e l’ex Centro di identificazione ed espulsione di Gradisca in Friuli Venezia Giulia.
«Modello fallimentare che deve essere assolutamente superato»
I decreti sicurezza varati dal precedente governo hanno parzialmente smantellato le strutture alternative di identificazione e di rimpatrio, restringendo l’accesso agli Sprar (il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati gestito dai comuni italiani) soltanto a chi è già titolare di protezione internazionale o ai minori stranieri non accompagnati.
La misura, confermata in seguito da una circolare del 14 gennaio 2019 del nuovo ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, ha comportato nei fatti un loro crescente affollamento e quindi anche un deterioramento delle condizioni, già precarie dal punto di vista igienico, della salute e della sicurezza dei detenuti.
Come del resto evidenzia il caso di Gorizia. Riccardo Maggi, deputato di +Europa, dopo aver fatto visita al Cpr ne ha denunciato le condizioni preoccupanti, come i molti casi di autolesionismo tra i detenuti, definendolo «un modello fallimentare che deve essere assolutamente superato». Ne chiedono la chiusura – a Gorizia come in tutto il Paese – associazioni come “No Cpr e No Frontiere” che nei giorni scorsi hanno lamentato l’apertura del centro di Macomer.
Sono molti i punti di criticità evidenziati dalle ispezioni effettuate negli ultimi anni. Seguito alle visite del Garante Nazionale in quattro strutture (Brindisi, Bari, Palazzo San Gervasio e Torino) era stata segnalata l’assenza di spazi comuni destinati al consumo dei pasti e ad attività ricreative. Nel 2018, la Human Rights and Migration Clinic, aveva esaminato le condizioni nel Cpr di Torino e denunciato l’inadeguatezza del numero del personale medico e del numero degli ospiti all’interno della struttura torinese: troppi.
Ma sopratutto, reclusi da troppo tempo. Complice non solo la lentezza del sistema di identificazione e i pochi accordi di rimpatrio con i paesi d’origine dei migranti, ma la mancata riforma dei decreti di sicurezza. L’articolo 3 del primo decreto sicurezza ha alzato da 90 a 180 giorni la soglia massima di detenzione. Sei mesi circa che si vanno a sommare ai trenta giorni nei cosiddetti hotspot e nelle strutture di prima accoglienza (Cas e Cara) per un totale di 210 giorni. Sette mesi, solo per verificare l’identità degli stranieri che arrivano in Italia.
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