Quell’eterno ragazzo afroamericano di Filadelfia: l’amore per il Basket di Kobe Bryant sbocciato in Italia
«Il mio cuore può reggere il peso, anche la mia mente, ma il mio corpo sa che è giunto il momento di salutarci. Ma va bene così». Kobe Bryant, l’ex stella dei Los Angeles Lakers, è morto in un incidente in elicottero il 26 gennaio.
Poche ore dopo l’annuncio della sua morte l’Nba si è fermata, 24 secondi, pochi, ma significativi per rendere omaggio a un gigante del basket che quello sport lo aveva salutato cinque anni fa in una breve lettera al suo grande amore. «Mi ero innamorato di te. Ti ho dato tutto me stesso», scriveva Bryant nel 2015 in un addio al campo che si sarebbe trasformato in un corto da premio Oscar dal titolo Dear Basketball.
Dieci anni prima di quell’addio il mondo si era fermato ancora per Bryant: la guardia dei Lakers aveva appena giocato una partita da 81 punti, diventando il secondo nella storia della Nba a mettere a referto uno “score” così importante. Una maglia, quella dei Lakers, indossata da quel ragazzo di Filadelfia ben 1346 volte. Una tappa forse obbligatoria per uno che da bambino era certo un predestinato al rettangolo con due canestri. Una strada, quella per il podio dell’Nba che è passata, destino vuole, anche dall’Italia.
«Non c’erano molti bambini neri in giro per l’Italia a quel tempo», aveva raccontato Bryant a Spike Lee per la serie del regista americano intitolata Spike Lee’s Lil’ Joints. Già, non doveva essere stato facile per il ragazzino venuto da Filadelfia trasferirsi a sei anni oltreoceano per seguire le orme e la carriera del padre Joe, che nei sei anni vissuti in Italia avrebbe attraversato tutta la Penisola con la sua famiglia. Prima Rieti, poi Reggio Calabria e Pistoia e infine Reggio Emilia.
«Ero intimidito dall’esperienza di dovermi trasferire in Italia», ricordava sempre Bryant nel documentario di Lee. Ma per il quarto marcatore di tutti i tempi della massima lega americana, non sarebbe stato certo un oratorio di provincia a fermarlo. «Crescere dall’altra parte dell’oceano – aveva detto la star dell’Nba – mi ha dato un incredibile vantaggio perché avevo imparato i fondamentali. Non come fare il giocoliere ma come muovermi senza palla e usare i blocchi, utilizzare entrambe le mani, passare la palla in maniera efficace».
E così a 6 anni Kobe è già il terrore dei suoi avversari in quei mini campi da basket dove il campo è più corto e i cerchi più piccoli. Ma poco importa perché con quelle città, in particolare Reggio Emilia, Kobe instaturerà un legame che lo porterà a tornare più e più volte per rivedere vecchi amici e compagni di squadra: «Le cose che sembrano piccole in questo momento, con grande lavoro, diventeranno tra due anni cose grandissime», aveva detto in una sua recente visita in Italia a un gruppo di ragazzi che come molti della loro generazione sognavano di svegliarsi con addosso una casacca gialloviola e il numero 24.
Quel legame con l’Italia gli rimarrà addosso per tutta la vita tanto che il cestista aveva detto di avere la pelle d’oca al solo parlarne. Nel 2016, in un italiano quasi perfetto, Bryant aveva detto in un’intervista a Radio Deejay: «Lo parlo poco, ogni tanto con le mie sorelle». Un legame che Bryant ha trasmesso anche alla famiglia chiamando le quattro le figlie con nomi dal richiamo italiano: Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe e Gianna Maria-Onore, quest’ultima morta nello schianto insieme al padre.
Bryant è tornato in Italia numerose volte, in quel Paese che amava chiamare casa e dove sognava un giorno di poter giocare. Ora Reggio Emilia gli dedicherà una piazza, simbolo di quell’immortalità che spetta solo ai grandi campioni, a quelli che trascendono le imprese sul campo, e di quel legame che nemmeno la morte può spezzare.
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