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«Aumentare il welfare aziendale fa bene anche alle imprese, specie quando i salari sono bassi» – L’intervista

29 Gennaio 2020 - 06:41 Felice Florio
L'ultima indagine Istat fotografa un'Italia divisa. A Bolzano il reddito pro capite più alto, in Calabria il più basso. Ne abbiamo parlato con un professore di Politica economica

L’ultima indagine dell’Istat relativa ai conti economici territoriali restituisce l’immagine di un Paese disgregato: ad aree che cavalcano la crescita e inspessiscono il proprio vantaggio economico, si alternano zone dove la crescita rasenta lo zero o mostra ancora cifre negative. Parlare di ripresa, nonostante nel 2018 il Pil in volume a livello nazionale sia aumentato del +0,8%, è fuorviante.

«Lo 0,8% a livello statistico si associa a un segno “più”, questo è vero. Ma nella realtà i suoi effetti sono pari a zero: il Paese è fermo, non riesce a prendere la stessa rincorsa delle altre economie europee», dice a Open Massimiliano Serati, professore associato di Politica Economica della LIUC – Università Cattaneo. Abbiamo analizzato con lui l’ultimo rapporto Istat, pubblicato il 28 gennaio, individuando aspetti della società italiana che, sebbene non prettamente macroeconomici, sono lo specchio umano dei dati messi in luce dall’analisi statistica.

A differenza della crescita, più incisiva nel Nord-Est, il Pil pro capite vede in cima alla graduatoria l’area del Nord-Ovest con un valore in termini nominali di oltre 36 mila euro, quasi il doppio di quello del Mezzogiorno, pari a circa 19 mila euro. Anche per il reddito l’Italia risulta spaccata in due: le famiglie residenti nel Nord-Ovest dispongono del livello di reddito per abitante più elevato, oltre 22 mila euro, quasi il 60% in più di quelle del Mezzogiorno, di circa 14mila euro.

Su un piano regionale, nel 2018, sono le Marche a registrare la crescita del Pil più elevata, con un +3% rispetto all’anno precedente. Un deciso recupero dell’attività produttiva si rileva anche per l’Abruzzo, dove il Pil è cresciuto del +2,2% e per la Provincia Autonoma di Bolzano +2%. Sopra la media nazionale si posizionano altre tre regioni del Mezzogiorno: Sardegna e Puglia, +1,4%, e Molise, +1,2%. In Lombardia la crescita economica ha rallentato sensibilmente: nel 2018 il Pil è aumentato del +0,5%, contro il +2,2% dell’anno precedente.

Le flessioni del Pil più rilevanti si riscontrano invece in Calabria (-0,8%), in Campania (-0,6%), in Sicilia (-0,3%) e nel Lazio (-0,2%). Nel Mezzogiorno è elevata l’incidenza del lavoro irregolare. La regione che va peggio, anche in questo ambito, è la Calabria: qui il peso dell’economia sommersa e illegale è massimo, con il 21,8% del valore aggiunto complessivo. I calabresi si posizionano all’ultimo posto anche nella graduatoria del Pil medio per abitante, pari a 17 mila euro. Al primo posto, invece, la provincia autonoma di Bolzano, con un Pil per abitante di 47 mila euro.

Professore, il Pil italiano nel 2018 è cresciuto, in media, dello 0,8%. Nella percezione comune, però, persiste un certo malessere, una mancanza di fiducia dei cittadini e dei consumatori. Come mai?

«Uscendo dal perimetro definito dall’analisi economica entriamo in una realtà passibile di diverse interpretazioni. Ecco le mie: scavando a fondo dei dati disaggregati, individuo principalmente due elementi che possono essere causa del malessere generale. Il primo è che il gap economico tra i territori italiani, invece di essere limato, continua ad aumentare. Il secondo è che la crescita del Pil aggrega tutti i settori del nostro tessuto economico: in realtà, per alcune attività che corrono, ce ne sono molte altre che arrancano e che toccano più da vicino la maggior parte dei cittadini. A questi due elementi, va sommata una sfiducia generale nella politica, nelle istituzioni e in tutti gli apparati del sistema Italia. Il malessere ha tante facce, non solo economiche».

L’altro dato interessante è che il Paese risulta, ancora, spaccato in tre aree: Nord-Est, dove la crescita è del +1,4%, Nord-Ovest e Centro, +0,7%, Sud e Isole +0,3%. Parliamo di un divario enorme, perché la crescita è maggiore nei territori che già partono da una posizione di vantaggio per il Pil.

«Le considerazioni sono molteplici. Per primo va segnalato un primato non scontato in termini di crescita del Nord-Est sul Nord-Ovest. Il Nord-Est è un territorio che in passato è stato trainante di tutta l’economia italiana, ma negli ultimi anni aveva perso terreno. Recentemente, invece, è riuscito a recuperare lo slancio, doppiando il Nord-Ovest in termini di crescita. Dobbiamo sottolineare che quella spinta è destinata a continuare: da un lato per l’enorme propensione del Nord-Est all’export, dall’altro per la servitizazion che è permeata nel territorio. Cosa vuol dire? Che le cerniere industriali del Nord-Est sono riuscite a integrarsi bene con quei servizi ad alto valore aggiunto, come la logistica, la digitalizzazione e la comunicazione».

«Il paragone tra Est e Ovest del Nord Italia porta a un’altra considerazione: a fronte di una crescita che è più brillante nel Nord-Est, in termini assoluti, il Pil pro capite è maggiore nel Nord-Ovest. Questo perché ci sono delle ricchezze dormienti, prodotte in passato e che costituiscono un prezioso stock. Ma sono ricchezze che non possono alimentare la crescita, sono improduttive. Questo è un tema decisivo perché parliamo sempre della necessità di creare start up e nuovi posti di lavoro: attivare quel patrimonio sarebbe un boost per la crescita».

«In generale, notiamo che i redditi disponibili delle famiglie crescono di più dei consumi e ciò fa pensare che sia ancora in corso un ciclo del risparmio: le famiglie stanno destinando la maggior parte delle risorse derivate dalla crescita del Pil nel risparmio. Lo stesso risparmio dal quale hanno attinto pesantemente durante la crisi economica iniziata 10 anni fa. Per completare la risposta, l’elemento al quale va dedicata maggiore attenzione è il divario tra Nord e Sud: comincia ad assumere i contorni del drammatico. Nel Sud, a fronte di situazioni di assoluta eccellenza che compaiono a macchia di leopardo, il tessuto generale è ancora penalizzato da gravi problemi: strutturali, di legalità, di fondi europei in diminuzione o spesi male. Senza una visione politica, l’economia poco può fare per risollevare quelle aree».

Esiste una ricetta per appianare il gap tra i territori italiani?

«Non è così semplice, più che una ricetta serve un intero menu e tanti tentativi da mettere in atto. Bisogna muoversi, innanzitutto, lungo due direttrici. La prima riguarda i problemi atavici del Paese. La criminalità diffusa ad esempio. Sventuratamente c’è anche al nord ma è meno gridata e ha scelto la via di provare a infiltrare l’economia più che agire da freno. Al Sud, invece, la criminalità agisce più da zavorra per l’iniziativa personale. C’è l’annoso problema delle infrastrutture, materiali e digitali. La seconda via per sbloccare la situazione è quella che in molti Paesi arretrati dell’Ue ha funzionato: si è investito in primis sulle persone, sulla loro conoscenza. Creare capitale umano e trattenere cervelli nel territorio che li ha formati, aiutando la permanenza veicolando risorse sull’innovazione».

Il reddito per abitante nel Nord-Ovest è circa del 60% più alto di un cittadino residente nel Mezzogiorno. Non solo la crescita del Pil, ma anche le opportunità lavorative hanno una differenza abissale percorrendo le latitudini della Penisola.

«Certo, il basso reddito pro capite è il riflesso di un limitato sviluppo produttivo. Dall’altro canto, scarsità di disponibilità economica non attiva i consumi e quindi non la crescita risulta stagnante: è un loop. Un circolo che innesca migrazione dei capitali, delle persone, delle idee imprenditoriali. Il tema è rompere l’anello e riuscire a creare, nel Mezzogiorno, il clima ideale per fare impresa. Per esempio garantendo maggiore connettività digitale e fisica, accesso al credito, rispetto diffuso delle regole. È un cane che si morde la coda: meno ricchezza c’è, meno questi fattori riescono a infiltrarsi nella quotidianità. E il loop persiste».

C’è, invece, un collegamento tra crescita del Pil e aumento dei giovani laureati?

«I laureati sono dei propellenti per la crescita. Ce lo dicono le statistiche, la letteratura economica, è un assioma indissolubile. Allarghiamo la prospettiva e non parliamo solo di laureati, perché il collegamento vale per tutte le competenze, basta che esse siano di buon livello. Anche la disponibilità di tecnici specializzati ha le sue correlazioni con la crescita del Pil di un territorio. Sono cruciali le conoscenze, l’essere in possesso di un bagaglio di competenze che sia ben profilato. Ribadisco, la proliferazione di abilità di livello superiore è un elemento che contribuisce alla crescita economica e fa migliorare i dati dell’occupazione generale».

Eppure proprio i giovani laureati, oggi, sono diventati il simbolo di una categoria di lavoratori un tempo sconosciuta: i working poor.

«Un problema di una complessità enorme. Quello dei working poor è un tema evidente, ma non riesce a rappresentare la verità nella sua complessità. Ci sono quote di laureati costretti a un regime di precarietà, di basso reddito ma, in termini percentuali, queste quote sono meno incisive del binomio ottima preparazione e buon lavoro. Ad ogni modo, poiché è anche quello dei working poor un problema, bisogna pensare come superarlo. Sconfiggerlo richiede sia scelte generali che scelte particolari».

«A mio avviso, le imprese faticano a restituire buone opportunità retributive a causa del peso fiscale che sta diventando insostenibile. E qui entriamo nel campo infinito della tassazione, del cuneo fiscale. Più nel particolare, il problema dei working poor può essere in parte alleggerito intervenendo sul sistema dell’offerta formativa delle scuole e delle università. Buona parte di esse è ancora ancorata a didattiche superate e che non producono figure appetibili per le imprese. Il 60% dei giovani italiani ha un’occupazione che è sotto o sovra-dimensionata rispetto a ciò che ha studiato».

«Il nostro sistema formativo fatica a tenere il passo con l’evoluzione dell’economia che è più frenetica, rapida. Altra causa che contribuisce al fenomeno è la peculiarità del capitalismo italiano. È fatto di piccole o piccolissime imprese che non riesce a retribuire i dipendenti in base al percorso di studio fatto. Ma il titolo di studio è davvero lo specchio di una maggiore capacità di innovare, di pensiero critico e tante abilità collaterali che possono contribuire alla crescita dell’impresa. Bisogna scardinare il paradigma e invogliare i piccoli imprenditori a investire in questo senso».

«Ad ogni modo, il tema delle retribuzioni sarà difficile da superare fintanto che non avremo risolto i problemi strutturali del Paese. Per garantire ai working poor un po’ più di serenità, al di là dello stipendio in senso stretto, si può provare a implementare più welfare aziendale. Le imprese che investono molto nel welfare hanno anche risultati migliori, ci sono molte evidenze scientifiche a riguardo. Garantire un miglior clima, ad esempio consentendo alle donne di lavorare in tranquillità pensando a un presidio che si occupa dei bambini, dando degli orari di lavoro che garantiscano alle mamme e papà di essere in alternanza a casa, cucendo un sistema di agevolazioni per i servizi necessari alla persona. Tutto il welfare è una buona strada per mettere una toppa a quei problemi, tra cui quello dei working poor, che saranno risolti davvero solo quando il Paese riuscirà a guarire le sue malattie strutturali».

È un po’ un cane che si morde la coda: le università più attrattive si trovano al Centro-Nord. I giovani cercano una formazione più completa e lasciano il Meridione. Le imprese dei territori più produttivi pescano nuova forza lavoro dai centri di formazione più prossimi. Le competenze e le conoscenze migliori si agglomerano sopra il Po.

«Aggiungo una cosa: allarghiamo lo scenario e andiamo oltre alla realtà nazionale. A migrare, nel futuro prossimo, non saranno solo i cervelli. Presto a muoversi saranno anche le imprese. Nel corso dei 10-15 anni passati, molte imprese hanno delocalizzato andando nei Paesi dove il costo del lavoro era più basso, inseguendo un vantaggio economico immediato perché il settore del lavoro era legato alla produzione in senso stretto. Già oggi, invece, il paradigma è cambiato: le tecnologie e le competenze stanno diventando sempre più importanti rispetto alle attività strettamente produttive. Alcune imprese potrebbero rientrare o spostarsi in quelle aree territoriali dell’Italia o di altri Stati membri dove l’accesso al capitale umano è più comodo e si può scegliere tra un’ampia platea di persone altamente competenti».

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