Il coronavirus contagia anche l’economia. Quali sono i rischi per la Cina e per il resto del mondo che fa affari con Pechino
Toyota ha bloccato la produzione. Ikea ha chiuso la metà dei suoi negozi in Cina, esattamente come Starbucks. Iberia e British Airways hanno sospeso i voli verso la Cina. Città enormi, a partire da Wuhan, sono bloccate.
Il coronavirus non è un rischio solo per la salute. Anche l’economia sta tremando. Alcuni osservatori hanno cominciato a calcolare il rischio effettivo per il Pil della Cina, soprattutto perché l’epidemia è nata nella provincia di Hubei, un territorio strategico per i piani economici del governo.
Alessia Amighini è un’economista che si occupa di Asia per l’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. È lei a spiegarci il futuro che si comincia a intravedere per la Repubblica Popolare.
Qual è il peso della provincia di Hubei per il Paese?
«Hubei è una provincia che è diventata fondamentale per il presidente Xi Jinping. Dal 2013 questo territorio è il centro per la migrazione della manifattura dalle coste verso l’interno. Al momento ci sono le sedi di circa 40 aziende europee e 40 aziende statunitensi.
Hubei è una specie di crocevia nei corridoi di trasporto Nord-Sud ed Est-Ovest. È una scelta fatta perché le regioni costiere sono state storicamente congestionate e negli anni ’90 la situazione è diventata insostenibile. In parte le aziende sono state costrette a muoversi, in parte sono state sovvenzionate. Al momento non si sa quando queste aziende riprenderanno la loro normale attività».
Quante persone vivono a Hubei?
«Ha circa 60 milioni di abitanti, praticamente come l’Italia. Vista la concentrazione di aziende poi c’è da contare anche quella che si definisce “popolazione flottante”: decine di migliaia, se non di più, di persone che si muovono per lavorare.
Alcuni, quando le distanze lo permettono, vivono come pendolari. Altri invece trovano un appoggio da parenti o amici. Nessuno di loro può cambiare la residenza perché il governo lo impedisce».
In tutto questo diverse aziende hanno scelto di fermare o comunque di ridurre la loro attività in Cina.
«Le stime sull’impatto del coronavirus sull’economia sono ancora molto caute. Le grandi banche hanno fatto valutazioni che vanno dall’1 al 3,5% di Pil perso, ma stiamo ancora navigando a vista».
Quali sono gli ambiti in cui esiste un rischio più concreto?
«Prima di tutto c’è l’impatto sulla spesa pubblica. Invece che seguire il piano per le infrastrutture deciso dal governo, molti fondi sono stati dirottati verso la creazione di ospedali o comunque strutture di emergenza.
C’è poi il rischio per la caduta dei consumi. A Shangai i miei ex studenti sono segregati nel campus dell’università. Vengono comprati solo i beni ritenuti necessari per vivere».
Ci saranno conseguenze anche per il commercio con gli altri Paesi?
«Sì, nel momento in cui la Cina si ferma, o rallenta drammaticamente, diminuisce la domanda dei beni di consumo. Il distretto delle auto è quello in cui potrebbero esserci i risvolti più importanti.
A Hubei sono concentrate le grandi imprese: quelle cinesi e quelle che lavorano per altre aziende europee. È qui che nei prossimi trimestri potremmo avere delle conseguenze gravi».
La Cina verrà isolata dal resto del mondo?
«Questo virus avrà l’effetto di congelare le relazioni con la Cina. Loro tenderanno a isolarsi, ma anche gli altri Paesi, soprattutto quando arriverà il picco della diffusione, cercheranno di allontanarsi. Le aziende però non vedono l’ora di ripartire e, al momento, non hanno alcuna intenzione di andarsene dal Paese».
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