Omicidio Vannini, uno dei più terribili casi di cronaca nera degli ultimi anni
Sono passati quasi cinque anni dalla morte di Marco Vannini, un giovane di 20 anni ucciso da un colpo di pistola mentre si trovava a casa della sua fidanzata. A spararlo, il padre di lei. È il 17 maggio 2015: Vannini, che di lavoro fa il bagnino in uno stabilimento sul litorale a nord di Roma, alla fine del turno decide di andare a cena a casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli. I due stanno insieme da tre anni ed entrambi hanno un rapporto molto confidenziale con le rispettive famiglie.
«Mamma, questa sera resto a dormire da Martina». Sono le ultime parole che Vannini dirà a sua madre, al telefono. Il giovane è a cena nella villa a Ladispoli: a tavola con lui ci sono Martina Ciontoli, il fratello Federico Ciontoli con la fidanzata Viola Giorgini, e i suoceri Antonio Ciontoli e Maria Pezzillo. Terminata la cena, Vannini chiede di potersi fare una doccia, si alza e va a lavarsi in bagno. A un certo punto, si apre la porta: è il padre della sua ragazza, Antonio Ciontoli.
Il colpo di pistola
Mentre il ragazzo è nudo nella vasca da bagno, l’uomo armeggia nella scarpiera in cerca di qualcosa. Tira fuori una Beretta calibro 9 – di lavoro fa il maresciallo, sa utilizzare le pistole – e senza verificare che l’arma fosse scarica o che la sicura fosse attivata, schiaccia il grilletto. Parte un colpo che colpisce il ragazzo al braccio destro, sotto la spalla, e attraversa polmone e cuore. Il boato è così forte che lo sentono persino i vicini di casa: anche grazie alle loro testimonianze sarà possibile stabilire che Ciontoli ha sparato alle ore 23.00.
Le chiamate al 118
Da quel momento in poi è un susseguirsi di bugie, omissioni, per cercare di coprire Antonio Ciontoli. La prima chiamata al 118 arriva con colpevole ritardo, alle 23.41: «C’è un ragazzo che si è sentito male, è diventato bianco e non respira più. Si è spaventato». È il figlio Federico ad allertare i soccorritori, ma subito dopo la madre, Maria Pezzillo, alza la cornetta e annulla la richiesta: «Il ragazzo si è ripreso, l’ambulanza non serve». Vannini si lamenta, soffre: ma la paura che l’uomo possa perdere il posto di lavoro è più forte.
L’arrivo dell’ambulanza
Passano altri 24 minuti e arriva un’altra chiamata al 118. Questa volta è Antonio Ciontoli a telefonare: «Il ragazzo si è ferito con un pettine a punta, grida perché si è messo paura». Chi ha risposto alla chiamata dirà di aver sentito, in sottofondo, le urla strazianti di un ragazzo. Dal momento dello sparo a quando i carabinieri vengono a conoscenza dell’accaduto, verso l’una di notte, sono passate circa due ore. Intanto l’ambulanza arriva alla villa di Ladispoli.
Il decesso in volo
Solo quando i soccorritori prendono in carico un agonizzante Vannini, in codice giallo, Antonio Ciontoli racconta la verità al medico in turno: nessun pettine, il giovano è stato ferito da un colpo di pistola, «ma non lo dica a nessuno, rischio di perdere il lavoro». Vannini viene trasportato d’urgenza in elisoccorso al policlinico Gemelli, ma ormai non c’è più nulla da fare: sono passate da poco le 3.00 e il ventenne muore durante il trasporto.
Processo d’appello da ripetere
Il 7 febbraio i giudici della Corte di Cassazione hanno accolto la richiesta del procuratore generale di annullare la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma, che aveva ridotto da 14 a 5 anni di reclusione la condanna per Ciontoli. La vicenda è «gravissima e quasi disumana» ha detto Elisabetta Ceniccola: il procuratore ha spiegato che Vannini non è morto per il colpo d’arma da fuoco subito, ma «per un ritardo di 110 minuti nei soccorsi» da parte della famiglia Ciontoli. Questa responsabilità deve essere ulteriormente valutata.
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