Coronavirus, parlano gli studenti italiani rimpatriati dalla Cina: «Stiamo bene, vorremmo essere ancora lì»
«Sai qual è la cosa che mi dispiace di più? Non aver potuto finire il mio anno a Handa. Questi cinque mesi sono stati bellissimi». Cento ragazzi italiani in Cina, 14 a Hong Kong, stavano vivendo un anno all’estero grazie al programma dell’associazione Intercultura-Afs. A causa dello scoppio dell’epidemia del Coronavirus, la loro esperienza ha subito una brusca interruzione: sono dovuti tornare in Italia per una questione di sicurezza. Abbiamo parlato con due ragazzi di 17 anni andati in Cina grazie a Intercultura: dal rimpatrio al reinserimento a scuola, ci hanno raccontato come stanno vivendo questi giorni e quali sono le misure precauzionali adottate.
Il racconto di A.F.: «Ringrazierò sempre la Cina per questi mesi incredibili»
«È cominciato tutto verso il 20 gennaio. Avevamo un gruppo su Wechat – una sorta di Whatsapp cinese, spiega A.F. – con i professori locali. Erano iniziate le festività per il capodanno cinese e all’improvviso arriva un messaggio della nostra professoressa che ci raccomanda di stare attenti perché c’era una malattia in giro. “Mettete la mascherina, lavate bene le mani”. Ma in quei giorni io e i miei amici pensavamo soltanto ai viaggi che avevamo programmato per visitare la Cina durante il periodi di feste».
A.F. racconta che la cosa più difficile, in quei momenti, era la velocità con cui dovevano adattarsi ai cambiamenti: «Ci informavamo sui siti ufficiali cinesi e ogni giorno aggiornavano il numero dei contagi, dei decessi, dei casi incerti. Ma il clima era abbastanza tranquillo: l’unica preoccupazione era non avere più l’autorizzazione a viaggiare. I professori hanno iniziato a chiederci di modificare le tratte del viaggio, di restare al Nord e non andare a Shanghai ad esempio. Nel giro di quattro giorni, dal 20 gennaio, è cambiato tutto».
Video di A.F. | I controlli della temperatura a cui sono sottoposti i passeggeri dei treni
«Afs Cina ha annullato tutti i viaggi organizzati per gli studenti stranieri. Io abitavo a Handa, 400 km da Pechino. Non ero neppure così lontana, ma non potevo andarci. I professori continuavano a tranquillizzarci, utilizzavano sempre la parola “evitate” e mai “non fate”. Quando, però, è arrivata la comunicazione ufficiale in cui ci chiedevano di rimanere in casa, abbiamo realizzato che la situazione stava peggiorando. Ricordo che il quartiere dove abitavo era stato tappezzato di striscioni in cui si ricordava alla popolazione di indossare la mascherina, di lavarsi le mani e di evitare gli spostamenti».
Sapete qual è stata la preoccupazione più grande di A.F.? «La prima cosa che ho pensato è stata “non voglio tornare in Italia”. Avevo paura che quell’esperienza finisse prima dell’estate». Ed effettivamente è stato così: nel giro di dieci giorni l’avventura si è interrotta – A.F. l’ha capito quando diversi Paesi, dal 30 gennaio, hanno iniziato a rimpatriare gli studenti -. «I primi a dover lasciare la Cina sono stati i miei amici thailandesi, poi è stata la volta dei compagni danesi e svizzeri. Quando gli Stati Uniti hanno richiamato in patria i miei coetanei, abbiamo capito che era davvero finita. Dopo gli studenti di Hong Kong è toccato a noi italiani».
«Non sono riuscita a salutare nessuno – i professori, gli amici: è stata la cosa peggiore – dice A.F., prima di raccontare come è cambiata la vita intorno a lei -. Il 24 gennaio era ancora tutto normale, la mia famiglia ospitante nemmeno usava la mascherina. Ricordo che andammo in campagna a trovare i nonni cinesi. Già il 25, il giorno di Capodanno, c’era più gente con la mascherina in giro. Il 26 la città era deserta e i miei genitori avevano iniziato a utilizzare la mascherina. Disinfettavano tutto dentro casa, lavavano spesso le mani, e in Cina non è scontato – sorride -. Non mi facevano uscire per sicurezza. Un momento molto triste è stato quando sono tornata a scuola a prendere le mie cose perché avevano deciso il giorno del rimpatrio: ricordo di una città vuota, senza rumore. Era il 30 gennaio».
«Io e la mia famiglia passavamo le giornate in casa a guardare la televisione – racconta A.F. -. Eravamo barricati dentro e ogni tanto i genitori uscivano, ma solo per comprare i beni di prima necessità. Un giorno la sorella ospitante mi ha spiegato che le ferie sarebbero dovute finire il 2 febbraio. Ma il 6, quando ho lasciato casa, i miei genitori ospitanti erano ancora in vacanza. Guardavano spesso un programma h24 che trasmetteva in diretta la situazione da Wuhan, con particolare attenzione alla costruzione di un ospedale: era un canale monotematico».
Come è riuscita A.F. a tornare in Italia? «I miei genitori mi hanno accompagnato alla stazione di Handa. Da lì ho preso un treno che mi avrebbe portato a Pechino: arrivati in stazione, ci hanno controllato la temperatura e poi siamo saliti. C’era l’obbligo ovunque di indossare la mascherina. La cosa davvero d’impatto è che anche in treno c’erano i controllori che passavano nei corridoi e, al posto del biglietto, controllavano la temperatura dei passeggeri: se qualcuno aveva la febbre, veniva portato via».
«Scesi alla stazione di Pechino, abbiamo dovuto attraversare degli scanner termici. Poi il team dell’Afs ha organizzato un autobus per raggiungere l’aeroporto della capitale. Ecco, quello è stato il tragitto più inquietante: una metropoli super popolosa come Pechino senza un’anima viva in giro. Sulla superstrada c’eravamo solo noi – prosegue il racconto A.F. -. Arrivati in aeroporto, anche questo praticamente vuoto, ci veniva chiesto a ogni varco di togliere il cappello e lasciarci misurare la temperatura. Poi, di lì, siamo decollati verso Hong Kong. A ogni passaggio – discesa dal volo, zona del transfer e imbarco – c’era il controllo della febbre con una pistola laser. A Hong Kong, prima di scendere dall’aereo, abbiamo dovuto compilare una dichiarazione in cui negavamo di aver avuto sintomi del coronavirus e di essere passati da Wuhan».
Un viaggio lunghissimo: «Da Hong Kong siamo partiti verso Londra, scalo a Heathrow e poi hanno diviso gli studenti Intercultura: alcuni sono decollati verso Milano, altri verso Roma. A Fiumicino, dopo l’ennesimo controllo della temperatura, ho riabbracciato i miei genitori. Non ho mai avuto paura, ero tranquillissima. Il mio dispiacere più grande era ed è l’aver dovuto lasciare un posto in cui stavo veramente bene. Ho sofferto anche all’idea di dover abbandonare la mia famiglia ospitante in quella situazione: il Capodanno è l’unico periodo dell’anno in cui hanno le ferie e mi dispiace che quest’anno non si siano potuti rilassare neanche un po’».
Cosa sta facendo A.F., adesso, a Roma, città in cui vive? «Resterò per un po’ a casa: non vorrei far spaventare i miei compagni di classe, anche se la quarantena nel nostro caso non è obbligatoria. Comunque, la scuola giustificherà la mia assenza per due settimane. In questi giorni di reinserimento in Italia voglio continuare a studiare il cinese prima di dimenticarlo e poi mettermi in pari con le materie italiane del primo semestre». A.F., raggiunta a telefono, è solare, appare molto tranquilla e l’unica nota di tristezza è legata all’interruzione anticipata del suo anno in Cina.
«Non mi sono assolutamente pentita di essere andata in Cina, anche se sono stati solo 5 mesi. Se avessi saputo che sarebbe finita così, sarei partita lo stesso. Innanzitutto sono cresciuta come persona: non pensavo di riuscire a resistere così tanto lontana da casa, a superare questa difficoltà dell’emergenza sanitaria. Poi ho imparato il cinese, ho fatto amicizia con persone che hanno lingua, cultura, tutto completamente diverso da me. E ci siamo voluti bene, ho costruito dei legami incredibili».
Video di A.F. | Alcuni studenti Intercultura nell’aeroporto di Pechino, con pochissimi passeggeri divisi in gruppi organizzati per i vari rimpatri
Il racconto di A.V.: «Se potessi ritornei in Cina oggi stesso»
«Vivevo nella provincia dello Sichuan, nel Centro-Sud del Paese. La città che mi ha accolto è Deyang, una città relativamente piccola in confronto agli altri centri urbani cinesi: solo quattro milioni di abitanti – racconta A.V., studente campano di 17 anni -. Ho iniziato a capire che la situazione stava cambiando quando ero in visita a Pechino: sono stato fortunato perché sono partito per un viaggio prima che ci fosse il blocco totale del Paese. Solo una volta lì, vedendo il gran numero di persone in giro per strada e per il fatto che Pechino è una città di passaggio per tutti durante il Capodanno cinese, mi sono preoccupato davvero: il numero di persone con la mascherina aumentava a vista d’occhio e temevo che qualcuno di Wuhan potesse trovarsi lì».
«Eravamo preoccupati, certo, ma mica quanto voi qui in Italia. Stando ai racconti sui giornali o a quello che mi dicevano i miei genitori italiani, sembrava che in Cina fosse scoppiata la peste. Invece bastava lavarsi bene le mani e mettere la mascherina per stare tranquilli. Lì in Cina, si vive tutta questa situazione in maniera più calma. Parlando con gli amici italiani, invece, mi domandavano cose del tipo “La gente muore per strada?”. Assolutamente no, non c’è in Cina la stessa ansia che si avverte qui in Italia. Dovevamo solo mettere sempre la mascherine, lavarci bene le mani ed evitare le uscite non necessarie».
«Poi però – spiega A.V. -, quando sono tornato a Deyang è iniziata la vera quarantena: i professori ci hanno detto di non uscire di casa. Essendo bloccato nell’appartamento, non ho potuto salutare i miei amici. Una cara amica, dato che agli studenti stranieri non era permesso girare per la città, mi ha lasciato un regalo in portineria e mi ha scritto una lettera di addio. Non potete immaginare quanto ho pianto».
«Ho avuto la conferma definitiva che sarei dovuto tornare in Italia solo il 5 febbraio. Sapevamo che ci sarebbe potuto essere un volo pronto al decollo il 6, ma non era certo. Anzi, ricordo che il 4 febbraio mi ha chiamato la professoressa dicendomi che, a causa di un problema all’aeroporto, saremmo rimasti altri 15 giorni in Cina. Non potete capire quanto abbiamo esultato in quel momento: ero felicissimo, e anche la famiglia ospitante lo era. Certo, i miei in Italia no – sorride -. Il 5 mi hanno riconfermato invece che l’aereo sarebbe partito l’indomani e non sono riuscito nemmeno a salutare il papà ospitante perché era fuori per due giorni».
«La mamma ospitante mi ha accompagnato da Deyang all’aeroporto di Chengdu. È stato un viaggio molto triste, era la prima volta da quando ero arrivato nella loro vita che la mamma mi ha abbracciato. Nelle famiglie cinesi – dice A.V. -, non si scambiano molti gesti di affetto perché il contatto fisico ha un valore così profondo che viene centellinato. Comunque, lungo la strada, ogni 20 km, c’era un posto di blocco e ci fermavano per controllare se avessimo o meno la febbre. Almeno nella mia provincia, le città non vivevano una vera e propria quarantena forzata: semplicemente cercavano di bloccare l’uscita o l’ingresso di persone malate nei centri urbani. Ci hanno fermato quattro volte, per strada, prima di arrivare in aeroporto».
«Sono partito per Hong Kong: prima di atterrare, ho dovuto compilare l’autodichiarazione in cui affermavo di non essere stato nello Hubei e di non avere i sintomi del coronavirus. Mi hanno misurato la febbre e fatto attraversare uno speciale scanner, non so bene a cosa servisse. Poi da Hong Kong a Londra e infine a Roma, dove ho ripetuto i controlli della temperatura. Sapete quanto è durato il viaggio?», dice con fierezza A.V., consapevole di aver superato una prova non facile. «36 ore. Un giorno e mezzo di viaggio».
E una volta tornato in Italia? «Ho deciso di rimanere 14 giorni a casa. A scuola sanno che sono in Italia, che è tutto a posto, ma non mi stanno facendo pressioni per tornare. So che qualche studente proveniente dalla Cina, invece, è tornato a scuola. Ma io ho scelto di far stare tutti più tranquilli, almeno quanto lo sono io. Dal rientro a oggi ho visto la mia migliore amica e alcuni dei miei amici più stretti. Quando li ho incontrati, per farli sentire a loro agio, ho indossato la mascherina. Purtroppo qui state vivendo quest’emergenza con una paura spropositata. Siate tranquilli: noi che abbiamo vissuto in Cina lo siamo. Purtroppo c’è una psicosi irrazionale: so di moltissimi ragazzi le cui famiglie di sangue non sono nemmeno andate, per paura, ad accogliere i figli all’aeroporto».
«Sono stato benissimo in Cina – conclude A.V. -. Ho risolto tanti problemi che avevo con me stesso ed è stato il periodo più bello di tutta la mia vita. Sono cresciuto tanto. È bello essere in Italia ora. Ma, se potessi, sceglierei di ripartire subito e tornare lì». Ah, A.V. ci tiene a far sapere una cosa: «A giugno compirò 18 anni e la prima cosa che farò sarà andare nel centro locale di riferimento e diventare un volontario Intercultura: voglio aiutare tanti ragazzi a vivere l’esperienza stupenda che ho vissuto anch’io».
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