Università, accademici contro il sistema di valutazione della ricerca: «La nostra Chernobyl» – La lettera
Ogni quattro anni e per la terza volta dal 2004, un comitato di accademici estratti al sorteggio sarà chiamato a valutare la qualità della Ricerca (Vqr) nelle università italiane. Si tratta di una procedura complessa che ha come scopo finale quello di selezionare dipartimenti di eccellenza a cui destinare la maggior parte dei fondi per la ricerca. Ed ecco che alla vigilia della nuova Vqr si fanno sentire le voci del dissenso: oltre duecento accademici hanno pubblicato una lettera per «la burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione dell’istruzione superiore rischiano di diventare la Chernobyl del nostro modello di organizzazione sociale».
Non tutti sono d’accordo. Su Twitter Luigi Marattin, deputato di Italia Viva ed economista (affianca alle sua attività di parlamentare quelle di ricercatore a tempo indeterminato presso l’Università di Bologna), lamenta la «reazione termonucleare» scatenata da un “semplice tentativo” di valutazione. Eppure sono diversi i nomi illustri della mondo accademico che hanno firmato la lettera pubblicata sulla piattaforma ROARS – Return on Academic Research, creata nel 2011 su iniziativa di Alberto Baccini, Giuseppe De Nicolao, Francesco Sylos Labini e altri docenti – tra cui anche Tomaso Montanari, Alessandro Barbero, Marco Revelli e Antonella Riem.
«Pubblica o muori» e l’eredità contestata della Riforma Gelmini
Burocrazia e asservimento al mercato, queste le cause dei mali dell’università evidenziati nella lettera che però non fa riferimento alla mancanza di fondi per la ricerca, motivo invece delle recenti dimissioni dell’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti. La critica rivolta ai nuovi sistemi di valutazione è quella di sottrarre tempo prezioso alla ricerca e all’attività didattica per soddisfare criteri burocratici dalla dubbia oggettività creando al tempo stesso incentivi di pubblicazione che finiscono per favorire la quantità a scapito della qualità.
«Ricerca e insegnamento da tempo non sono più liberi. Sottoposta a una insensata pressione che incalza a “produrre” ogni anno di più, a ogni giro (da noi VQR, ASN [L’Abilitazione Scientifica Nazionale ndr] ecc) di più – si legge nella lettera – la ricerca è in preda a una vera e propria bolla di titoli, che trasforma sempre più il già esiziale publishorperish in un rubbishorperish». Pubblica o muori, o meglio: pubblica “immondizia” o muori.
Lo scopo, annunciato con la Legge Gelmini che a partire dal 2010 rivoluzionò il mondo accademico italiano, introducendo criteri di valutazione basati su indici bibliometrici (come il numero di pubblicazioni o di citazioni), era non solo rendere più efficiente il mondo accademico, ma anche eliminare il nepotismo e favorire la meritocrazia. Antonio Scurati, docente e scrittore vincitore del Premio strega, scrive sul Corriere che i nuovi sistemi di valutazione non sono altro che «l’ultima, ennesima, sfinita maschera indossata dalle vecchie baronie, ora anche spogliate di quel minimo di responsabilità che il rango comportava».
Le critiche però non sono solo di ordine valoriale o ideologico. In Italia è stato riscontrato come il nuovo sistema di valutazione abbia portato ad alcuni effetti indesiderati: alcuni ricercatori dell’università di Siena e di Pavia hanno rilevato in uno studio pubblicato nel 2019 come dal 2010 i loro colleghi abbiano cominciato a citare sempre più spesso se stessi e i propri colleghi italiani all’interno dei loro articoli, gonfiando i risultati per tentare di superare le soglie bibliometriche dell’Anvur. Tutto ciò a scapito dell’internazionalizzazione, uno delle pecche del sistema di ricerca italiano.
Per i firmatari «Quel che serve oggi […] è una scelta di campo, capace di rammagliare dal basso quello che resiste come forza critica, capacità di discriminare, distinguere quello che non si può tenere insieme: condivisione ed eccellenza, libertà di ricerca e neovalutazione, formazione di livello e rapida fornitura di forza lavoro a basso costo, accesso libero al sapere e monopoli del mercato». Insomma, «un cambiamento radicale, se si vuole scongiurare l’implosione del sistema della conoscenza nel suo complesso» per evitare che si avveri – o che peggiori – il rischio Chernobyl.
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