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Interviste emergenti: Fosco17, l’anti-stereotipo dell’artista – Bologna

18 Febbraio 2020 - 22:53 Felice Florio
Ventiquattro anni, un amore sproporzionato per Bologna e la laurea in Ingegneria. «In questo momento preferisco un live in cascina a un'apparizione a Sanremo»

Inquadrare il genere musicale di Fosco17 non è semplice. Il 24enne, bolognese doc, è l’anti-stereotipo per eccellenza: rifugge l’eccentricità e anche per questo si fa fatica a paragonarlo ad altri artisti. I suoi brani assimilano influenze urban pop, ma non abdicano mai alla leggerezza, a un songwriting elegante. Dopo l’apparizione a Sanremo giovani nel 2018, Luca Jacoboni – questo il suo vero nome – si è dedicato alla produzione dell’album di esordio Dodici mesi.

«È un disco che parla in prima persona delle storie di tutti, delle cose degli altri, parla di sé parlando per tutti. Dodici mesi è un tempo in cui c’è modo di crescere, di far passare gli anni, di diventare grandi o vecchi. Non ha uno spazio né un luogo, ha solo delle voci diverse che gli danno aria. Un film a puntate, una serie di quattro stagioni, un anno di dodici mesi», racconta Fosco17.

Luca, la tua è la storia di un ragazzo normale: nessuna stravaganza tipica degli artisti, un percorso di studi insolito per un musicista e un amore sproporzionato per Bologna. Parlaci di te.

«Mi chiamo Luca Jacoboni, ho 24 anni e sono nato a Bologna, vissuto a Bologna ed è probabile che morirò a Bologna. Però non voglio vivere sempre qui: solo 360 giorni l’anno, le ferie le faccio altrove. Ho fatto le scuole elementari, le scuole medie e poi sono andato al liceo scientifico per un motivo importante: era a due passi da casa. Una volta diplomato, mi sono iscritto a Ingegneria. Anche lì, credo di averlo fatto perché la facoltà era dietro l’angolo di casa mia. In realtà in quel periodo volevo fare il fonico».

Il fonico?

«Era un’idea un po’ del cazzo, lo ammetto. Infatti in quel periodo mi domandavo sempre: che stabilità potrei avere facendo il fonico? Allora, per tagliare la testa al toro, mi sono detto: studio ingegneria elettronica perché le basi per fare il fonico sono nell’elettronica. Non avessi mai avuto questa idea. Sono stato iscritto per un anno, avevo superato qualcosa come un esame e mezzo, e poi ho scelto la vita: sono passato a ingegneria gestionale. Quindi in questo momento sono sfottuto dagli ingegneri, perché non sono un vero ingegnere, e da chi non è un ingegnere perché, ai loro occhi, sono un ingegnere. Comunque, nel 2018 mi sono laureato in triennale, ora sono iscritto alla magistrale anche se in questo momento la mia occupazione principale è la musica, alla quale dedico più del 70% del mio tempo non libero».

Quindi sei già arrivato allo step di considerare la musica un vero lavoro?

«Credo che sia un vero lavoro: non possiamo definire l’attività di qualcuno “lavoro” solo in base al reddito che genera. Ci sono modi diversi di fare le cose. Quando ho iniziato a fare le ultime canzoni mi sono detto “Ok, sono ancora giovane, ma tra un po’ dovrò preoccuparmi anche di come vivere in maniera tranquilla”. Quindi se devo fare musica, in questa fase della mia vita, la devo fare come e con dei professionisti. Che non vuol dire essere bravo, che non vuol dire diventare famosi, che non vuol dire fare un sacco di stream su Spotify. Ma vuol dire lavorarci: e oggi più che mai non vuol di guadagnarci».

Eppure, nel 2018, hai fatto la tua prima apparizione a Sanremo: non è bastata per iniziare ad avere delle entrate economiche sufficienti?

«Una delle poche cose per cui devo ringraziare Sanremo è l’approvazione che ho avuto dai miei cari. Quando i tuoi genitori ti vedono in televisione, cambia un po’ la prospettiva che hanno di te. Comunque, a mio padre non glielo toglie di mente nessuno che devo laurearmi e che quella sia la cosa più importante per lui. Papà ha fatto orecchie da mercante, ma gliel’ho ripetuto più volte: dubito che lavorerò da ingegnere. Questo non vuol dire che farò il musicista, ma credo che cercherò di giocare un po’ di me, inventarmi qualcosa. Non fa proprio per me il tipo di vita da ingegnere, non riuscirei a esprimermi».

Com’è stato salire sul palco dell’Ariston?

«Dicevo di voler andare a Sanremo da quando avevo 10 anni, lo giuro. E non so nemmeno il perché di questa perversione. Gli aspetti che ricordo di quella esperienza sono il circo mediatico e il clima sereno: era una gara musicale, ma la competizione non l’ho mai sentita. Mettendo insieme tutti i ricordi di quel periodo faccio fatica a trarre le conclusioni della mia esperienza, siano esse positive o negative. Nell’edizione del 2018, quella a cui ho partecipato, Sanremo giovani non ha costituito per me un boom di visibilità tanto da avere poi riscontri negli ascolti della mia musica. Detto questo, la partecipazione al Festival è servita a ridimensionarmi. Prima erano successe varie cose in fila, contatti e interessi del settore, sino ad arrivare alla televisione: le mie aspettative si erano gonfiate troppo. Poi, una volta arrivato lì, l’impatto emotivo è stato micidiale. Quando le telecamere si sono spente, sono riuscito a fare dei bilanci più ragionati: ho capito un sacco di cose sulla musica e su di me. Ho scoperto che, dal mio punto di vista, per raggiungere un obiettivo – dico questa parolaccia – per raggiungere la felicità, non bisogna seguire il percorso degli altri».

Meglio un live in cascina di un’esibizione all’Ariston?

«Magari sì, è la cosa giusta per me in questo momento. Poi ognuno deve essere il meglio di quello che può essere, non cercare di essere qualcos’altro, qualcun altro: tendenzialmente è una rovina. Ce la potresti anche fare, ma dura poco quel tipo di successo. Io arriverò dove arriverò, spero di riuscire a esprimere il meglio di me, l’importante è che la strada scelta sia mia, coerente con il mio essere».

Quando hai composto il tuo primo pezzo professionale?

«Esiste un modo di lavorare professionalmente, ma non esiste un modo di scrivere che sia professionale. Non sono una di quelle persone che “la-prima-canzone-che-ho-scritto-è-stupenda”. Ricordo però di averci lavorato tantissimo: a me nessuno ha mai regalato niente. Non mi hanno regalato la voce, non mi hanno regalato la penna, non mi hanno regalato il talento per la musica. Sto faticando per prendermi tutto, da solo».

Non sei un Cristiano Ronaldo.

«Non sono Messi, piuttosto. Cioè la grande differenza tra Cristiano Ronaldo è che non ci siano dubbi sul fatto che Messi sia estro, sia talento, sia più genuino come campione. Infatti è il numero uno al mondo. Però io preferisco Ronaldo perché si è messo lì, si è allenato oltre i limiti e ogni giorno si sveglia ripetendo a se stesso: “Devo essere il numero uno”. Non saprei dirti quando, si è entra nella sfera di scrittura, quale sia stata la mia prima vera canzone. Secondo me Dicembre è la prima che ha definito Fosco17. Ma ci sono dei pezzi che avevo scritto prima di quel brano che hanno un proprio perché. Uno di quelli sarà anche nel disco che sto per pubblicare».

Quando uscirà il nuovo album?

«Non si può dire».

Dai.

«Allora rispondo così: io vorrei che uscisse il prossimo autunno. Ho anche il titolo, però questo non me lo estorcerai».

Cosa fai quando scrivi il testo di un brano, a cosa ti ispiri?

«Io scrivo esattamente quello che vedo in quel momento. In realtà per Maradona c’è stato un processo creativo diverso. Non è una mia storia, ma la storia di un amico andato in Argentina per fare un’esperienza all’estero. Lì conosce una ragazza, ma poco dopo deve far rientro in Italia. E la storia si interrompe proprio mentre stava diventando qualcosa di serio. Ho descritto questo mancato amore che poi lui ha somatizzato come odio verso l’Argentina. Come raccontare questo rancore in maniera creativa? Immedesimandomi nei tifosi della Nazionale di calcio inglese che, nel 1986, sono usciti dai Mondiali perché il giocatore più forte di tutti i tempi ha fatto un gol di mano. È perfetto per rappresentare l’odio».

Avrai una storia simile anche per la canzone Cristiano Ronaldo. Qual è il tuo problema con il Portogallo?

«No – sorride – in questo caso non c’è nessun aneddoto. Cristiano Ronaldo era il trending topic del momento: ce l’avevo in testa perché tutti parlavano del fatto che la Juve avesse comprato Cr7. Allora il titolo è venuto naturale: può sembrare un po’ paraculo cercare dei nomi facilmente riconoscibili da tutti, ma in realtà sono temi del mio quotidiano che utilizzo per rievocare storie e cantarle».

Fai molti riferimenti al calcio: che squadra tifi?

«Ovviamente tifo Bologna, per me le altre squadre non hanno senso di esistere – ride -. A Bologna il nemico numero uno è sempre la Juventus: abbiamo una ferita aperta perché andammo in Serie B durante lo scandalo di Calciopoli a causa di alcuni torti arbitrali abbastanza clamorosi. Siamo molto incarogniti. Tuttavia, sarò impopolare con i miei concittadini, ma in Champions tifo le italiane».

Quanto ha influito la città di Bologna nel tuo percorso artistico?

«Secondo me molto, per il semplice fatto che Bologna è una piazza molto difficile sotto alcuni punti di vista e ti forma. Riesci a essere contemporaneamente in città e in provincia. Anche a livello culturale si ripropone questa contrapposizione. C’è il club che mette musica reggaeton e il locale di musica così sofisticata che io non riuscirò mai a comprendere. Queste realtà non comunicano minimamente tra loro: c’è un certo estremismo culturale ed è difficile non farsi detestare da una delle due parti».

Quando hai iniziato a lavorare seriamente al tuo progetto musicale?

«Circa due anni prima di Sanremo, tra il 2016 e il 2017, ho iniziato per conto mio a buttare dei semini, facendo uscire un po’ di brani mirati per lavorare con artisti che stimavo. Sono riuscito così ad aprire il concerto di Gazzelle e di Coma_Cose a Bologna. Il primo live ufficiale di Fosco17 è stato Sanremo giovani 2018».

Non male come esordio.

«Da un lato no, da un lato sticazzi – ride -. Nel senso, il live successivo all’Ariston avrai sempre meno persone che ti guardano».

Cosa ti attrae delle dimensione del live?

«Sul palco mi accompagna sempre Luca Rizzoli, il più grande batterista della storia – è ironico -. Davvero, fa quest’opera di carità e mi porta in giro come un bimbo musicale: lui regge il palco da solo. Da quando sono con lui è molto divertente suonare dal vivo. In realtà, quando ho scritto il disco, non ero molto propenso ai live. Lo studio rimane la mia dimensione ideale. Però, adesso che ci ho preso gusto, senza i live penso che mancherebbe una parte bella della mia musica. Mi piace chiacchierare con il pubblico, sul palco parlo molto».

Come mai hai scelto questo nome d’arte?

«Suonava bene, è il nome del figlio di mio cugino. Lui si chiama Felipe Fosco, però sembrava troppo altisonante. Serviva qualcosa da aggiungere a “Fosco” e ho pensato a un numero, “17”, perché i numeri suonano benissimo quando li scrivi».

A che genere musicale ti senti di appartenere?

«Credo che la cosa più simile che ci sia al mio genere è il pop R&B. Oggettivamente è questo il mio genere. Il problema è che io non ritengo il pop un genere. Il blues, il jazz sono generi perché hanno delle specifiche tecniche che si ripropongono. Il pop, invece, è musica popolare: potenzialmente potrebbe essere tutto e niente. Lo stesso vale per l’indie, che adesso è il nuovo pop. Quindi quali elementi uso io? Pop, forse. Indie, forse. Ho degli ascolti melodici? Anche. Alla fine dei conti, non si sente nulla di queste tre cose se non Fosco17».

Parliamo del tuo primo e unico album, Dodici mesi, pubblicato l’8 novembre 2019.

«Otto mesi per scriverlo e cinque per produrlo. Più o meno eh, le date non sono il mio forte. Quando arrivai a Sanremo nel 2018 il disco era già pronto: i pezzi erano scritti ma non prodotti».

Come mai non sei uscito a ridosso di Sanremo?

«Perché in quel momento lì mi stavo presentando un po’ a tutti. C’era bisogno di tempo per coltivare il mio rapporto con il mondo discografico. Ecco forse il limite della mia musica è che non arriva subito al pubblico, c’è bisogno di un ascolto un tantino più ragionato».

Qual è la tua canzone di Fosco17 preferita?

«Di me ascolto molto ciò che non è uscito. Nel momento in cui pubblico un pezzo, vivo una fase breve in cui ascolto mille volte quella canzone fino ad arrivare a uno stato di nausea e passo ad ascoltare i brani inediti. In questo momento, di quelle pubblicate, quella che mi sta piacendo di più è Non era luce: non è il pezzo più bello sicuramente, ma è quello che ho ascoltato di meno e per questo non sono ancora arrivato a quello stato di rigetto bulimico».

Quali sono i tuoi cantanti di riferimento?

«Mi dicono che assomiglio molto a Cesare Cremonini. Faccio un po’ fatica a trovare un cantante a cui assomiglio. Ho ascoltato un sacco di cantautorato italiano nella mia vita, adesso sto studiando molto la Vanoni con Toquinho, clamoroso vezz, un disco spettacolare. Romina e Celentano. Mia madre mi ha tirato su con cose diverse, tipo Lampo viaggiatore di Ivano Fossati. Ma non so cosa c’è di questi giganti nelle mie canzoni».

Luca, qual è il concerto dei sogni che vorresti fare?

«Vorrei fare un concerto in uno stadio, un palazzetto, questo non mi importa tanto. Però vorrei un’orchestra. Dovrebbe essere un anfiteatro al contrario, con le sedute che danno sul pubblico. Tutti i musicisti, e io tra loro, sulle gradinate: un’Arena di Verona ribaltata. Ma non un’orchestra classica: vorrei strumenti strani e un sacco di coristi gospel. Degli armadi di amplificatori. A metà concerto, poi, sale Jovanotti. Scende dopo il nostro feat e qualche minuto più tardi arriva Billie Eilish, dev’essere un momento un po’ dance. Poi anche lei – ride -, si leva dal c***o e subito dopo non vuoi fare una ballatona con Fossati? Poi vorrei un cameo dei Franz Ferdinand che compaiono all’improvviso sugli spalti. E il concerto finisce con un ‘tutti su’: arriva Luca Carboni e lo spettacolo si chiude nel mood “viva la musica”, “vogliamoci bene”, “uniti per Fosco17″».

Luca conclude l’intervista ridendo a crepapelle.

Video: Vincenzo Monaco

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