«Il 15% degli aiuti della Banca mondiale finisce nei paradisi fiscali». Ecco la ricerca che ha fatto dimettere la capo economista della World bank
Ne ha parlato prima l’Economist e quindi un informatissimo blog legato al Financial Times, Alphaville (non è proprio un blog come lo intendiamo noi, qui potete capirne di più): la capo economista della Banca Mondiale, Penny Goldberg, ha dato le dimissioni dopo appena 15 mesi. Il motivo, scrive con un certo grado di certezza Alphaville, è che una ricerca accademica che lei stessa ha supervisionato è stata “censurata”. Il paper, infatti, arrivava ad una conclusione imbarazzante per la Banca e interessante, allo stesso tempo, per tutti gli altri: più crescono i finanziamenti ai paesi in via di sviluppo, più aumentano i soldi che da questi paesi finiscono nei paradisi fiscali, scrivono i ricercatori. Non solo: in media, il 5% dei fondi provenienti dalla Banca Mondiale va dritto dritto nelle banche off shore, ad esempio alle Cayman o in Lussemburgo. Per i paesi che più dipendono da questi aiuti, si arriva al 15%. Dopo giorni di voci, la Banca mondiale ha deciso di rendere pubblico il testo (il pdf integrale). Ma, appunto, il suo esplosivo contenuto era ormai nelle indiscrezioni dell’Economist e di alcuni giornali internazionali. E le dimissioni della professoressa Goldberg ormai irrevocabili.
Cosa dice la ricerca
Gli autori del paper sono Jørgen Juel Andersen della BI Norwegian Business School e Niels Johannesen della University of Copenhagen e CEB, oltre al ricercatore interno alla Banca Bob Rijkers. Johannesen, tre anni fa, aveva dimostrato che quando sale il prezzo del petrolio, aumentano i depositi di “petrodollari” (provenienti dalle nazioni con maggiori giacimenti petroliferi) nei paradisi fiscali. La nuova ricerca, centrata sull’arrivo di finanziamenti dalla Banca mondiale, mostra una correlazione analoga: nel testo si analizzano le informazioni trimestrali sui 22 paesi più dipendenti dagli aiuti, in combinazione con le statistiche bancarie della Banca dei Regolamenti Internazionali, che coprono i flussi tra il paese beneficiario degli aiuti e i “paradisi” (come la Svizzera, il Lussemburgo, le Isole Cayman e Singapore). Come metro di paragone, la ricerca esamina anche i flussi tra il paese beneficiario e Germania, Francia e Svezia e vengono esclusi scenari di emergenza come guerre o crisi finanziarie.
La scoperta più importante
Prendendo un trimestre in cui uno Stato riceve aiuti pari all’1 per cento del Pil, si vede che i “suoi” depositi nei paradisi fiscali crescono di oltre il 3 per cento, se confrontati con un Paese che non riceve aiuti. Le rimesse nei paesi che non sono paradisi fiscali (ad esempio Germania, Francia e Svezia) sono pari a zero. In media, il 7,5 per cento degli aiuti è considerato “disperso”. Il paper contiene anche prove convincenti a sostegno dell’idea che quanto più un Paese dipende dagli aiuti della Banca mondiale, tanto più le elite dirottano all’estero i soldi, con una perdita che sale al 15% per gli Stati più dipendenti dagli aiuti. Come si fa a dire che i soldi che fuggono sono proprio quelli della Banca mondiale (ovvero del principale istituto al mondo che si occupa di combattere le disuguaglianze tra paesi)? Perché c’è un collegamento temporale tra i soldi che arrivano e quelli che finiscono off shore, mentre le rimesse nelle banche “normali” non crescono. E, per di più, la Banca Centrale non ha praticamente politiche di controllo su questo rischio, specie nei paesi molto poveri dove lo staff è ridotto. Insomma: un risultato doppiamente imbarazzante.
Cosa è successo alla fine
Quando i ricercatori hanno presentato il paper alla Banca Mondiale, lo scontro è stato inevitabile. La Banca si è opposta alla pubblicazione e – secondo le indiscrezioni – Penny Goldberg si è trovata stretta in un angolo: il capo economista, da sempre un professore ultra qualificato come è lei, deve proprio garantire i rapporti tra ricercatori e Banca. Bloccato il paper, Goldberg ha scelto di lasciare l’incarico: dal 1° marzo torna a Yale, alla cattedra di full professor in Economics. Alla fine, la Banca Mondiale ha deciso di pubblicare tutto comunque, nel tentativo di bloccare le polemiche. Ma la ricerca è destinata a far rumore. E tanto.
Foto di copertina: Tucker Tangeman per Unsplash