Morire a 20 anni di anoressia, come funzionano le strutture e perché le famiglie sono «lasciate sole»
Le storie dei ragazzi consumati dall’anoressia sono silenziose, sono storie di chi si spegne lentamente, il più delle volte nel silenzio generale, senza scuotere le coscienze. Non se ne parla spesso in tv, sono vicende che leggiamo raramente sulle pagine dei giornali. Eppure nel 2017 sono morte 3200 persone per un disturbo alimentare, oggi ci sono più di tre milioni di ammalati, i medici parlano di un’epidemia. I disturbi alimentari rappresentano la seconda causa di morte negli adolescenti tra i 14 e i 19 anni, dopo gli incidenti stradali. Aumentano i casi di anoressia maschile: fino a 10 anni fa riguardava l’1% dei malati, oggi il 10% che sale al 20% tra i 12 e i 17 anni. Si allarga anche la fascia dei malati: si ammalano sempre più spesso bambini tra gli 8 e i 10 anni. Poi è arrivata la storia di Lorenzo Seminatore. Un ragazzo intelligente, primo della classe, brillante, con la passione della musica, bellissimo nei suoi 20 anni. Insieme alla storia di Lorenzo, è arrivata anche la denuncia dei suoi genitori: «In Italia non ci sono strutture adeguate. Le famiglie sono lasciate sole».
Ci siamo chiesti come funzionano le strutte in Italia e qual è il percorso che devono affrontare i ragazzi affetti da un disturbo alimentare. È vero che le famiglie sono lasciate sole? Cosa deve fare un giovane che scopre di essere malato? Ad aiutarci a rispondere a queste domande la dottoressa referente per il ministero della Salute Laura Dalla Ragione – direttore della rete Dca Usl Umbria 1 e docente del Campus biometico di Roma – e un papà, Giuseppe Rauso – presidente dell’associaizone Consulta Noi – che ha visto sua figlia Maria Paola «spegnersi lentamente senza poterla aiutare».
Le famiglie sono lasciate sole?
Ci sono 146 centri dedicati ai disturbi alimentari in Italia. Per consultarli basta andare sul sito dedicato, realizzato in collaborazione con il ministero della Salute. Come spiega la dottoressa Dalla Ragione, solo metà delle regioni italiane hanno una rete completa per seguire a 360 gradi una persona affetta da un disturbo alimentare. Il ministero infatti aveva dato indicazione alle regioni di dotarsi di quattro livelli di assistenza: ambulatoriale (per i malati meno gravi), day hospital (per un percorso intermedio che non prevede la residenzialità), riabilitazione residenziale (per i casi più gravi) e il ricovero ospedaliero (il cosiddetto “salva vita”).
Ma solo la metà delle regioni italiane possono garantire un percorso completo. Regioni che sono distribuite a macchia di leopardo. Per averne prova basta “giocare” un po’ con la mappa che si trova sul sito, man mano che si inseriscono i filtri in base alla gravità della propria situazione e si clicca sulle varie regioni ci sono sempre meno centri a disposizione. «Per esempio in alcune regioni come Calabria, Sicilia, Sardegna, Puglia praticamente non ci sono centri. Anche il Piemonte, che è una regione che ha una buona sanità, non garantisce un percorso completo. Mentre altre regioni come Toscana, Umbria, Veneto, Emilia Romagna, Basilicata sono complete», spiega la dottoressa. Questo significa che le famiglie sono costrette a spostarsi per curare i propri figli. E mentre i centri sono quasi tutti pubblici o convenzionati con il pubblico, i costi per i viaggi rimangono comunque considerevoli. Inoltre le strutture si trovano così ad accogliere pazienti da tutta Italia e quindi spesso sono sature e si creano delle liste d’attesa.
Nel caso dei centri privati, a volte si riesce ad ottenere un posto pagando, come è stato per Lorenzo. Ma c’è di più. Per accedere a una struttura serve l’autorizzazione della propria Asl di appartenenza. E spesso le Asl sono restie a concedere autorizzazioni per cure fuori regione perché sono gravose per il budget. È successo per esempio nel caso di Maria Paola. Il papà Giuseppe Rauso ha dovuto girare mesi da un ufficio all’altro, chiedere persino l’intervento di un politico, perché la sua Asl in provincia di Caserta non voleva concedere l’autorizzazione per permettere alla figlia, ridotta a pesare meno di 40 chili, di essere ricoverata in una struttura fuori provincia, nemmeno fuori dalla regione Campania. Per cui sì, «le famiglie sono lasciate sole», concordano sia Giuseppe Rauso che la dottoressa Dalla Ragione.
Segnali d’allarme e percorso da seguire
I segnali d’allarme – spiega Dalla Ragione – sono di due tipi: comportamenti ripetuti nel tempo e ossessivi legati al cibo (ad esempio scartare ossessivamente il grasso del prosciutto, togliere la panatura, andare frequentemente in bagno dopo i pasti); cambiamento di carattere (ragazzi socievoli e solari tendono a diventare scontrosi, isolarsi). Quando i genitori colgono questo tipo di segnali d’allarme ripetuti nel tempo devono immediatamente contattare un centro (per avere informazioni sui centri nella propria zona c’è il numero verde 800180969). Si consiglia dunque di rivolgersi direttamente in una struttura specializzata. Saranno poi i medici a stabilire se il ragazzo ha bisogno o meno di cure, qual è, eventualmente, il suo stadio della malattia e indirizzarlo verso il percorso migliore.
Cause della malattia
Si tratta di una patologia con molteplici fattori. Generalmente sono ragazzi eccessivamente perfezionisti, molto intelligenti, primi della classe. A questi fattori predisponenti si aggiungono altri fattori come vulnerabilità genetica o fattori traumatici come nel caso di Maria Paola che in entrambi i momenti della comparsa della sua malattia ha subito il trauma di una rottura sentimentale.
La storia di un papà: «Ho visto mia figlia spegnersi lentamente»
Maria Paola si è ammalata a soli 12 anni, era il 2007 ed è iniziato tutto con una dieta. «Lei non era obesa, solo leggermente in sovrappeso, ha iniziato questa dieta che però poi è diventata eccessiva», racconta il papà Giuseppe Rauso. I genitori di Maria Paola si rivolgono subito a un professionista privato che la indirizza in un centro in cui è seguita da un équipe multidisciplinare. Un percorso che funzionò benissimo, tanto che la ragazza riuscì a guarire. «Era serena, ne parlava in famiglia e noi ogni sei mesi la portavamo a fare le visite di controllo perché è una malattia che ha delle ricadute». Nel 2012 però, a 17 anni, Maria Paola si lascia con il fidanzato. Una separazione che non riesce a superare, si ammala nuovamente.
«Non era più la ragazzina di prima, era una donna, era testarda», continua Giuseppe. Maria Paola non si fa aiutare. Arriva a pesare meno di 40 chili. Vani i tentativi dei suoi genitori di convincerla a mangiare. «Tanto che andiamo a fare una vacanza, che ci consigliò un medico per farla svagare, e lei in quella vacanza ha mangiato ghiaccio. Mangiava ghiaccio per non ingrassare, per riempirsi lo stomaco quando aveva fame». A un certo punto, con l’aiuto di un amico di famiglia, i genitori della ragazza riescono a convincerla a farsi curare. Ma fanno un errore. «Il nostro sbaglio è stato quello di individuare noi la struttura per lei, ma le famiglie non sono in grado di individuare il centro giusto, sono le Asl che dovrebbero aiutare, ma nella nostra Asl i medici non erano specializzati in disturbi alimentari, nessuno ha saputo consigliarci», spiega il padre di Maria Paola.
La struttura scelta è un Day Hospital a Castellammare di Stabia. Prima di accedervi però i genitori hanno dovuto anche superare l’incubo delle autorizzazioni, girando da un ufficio all’altro per mesi, perché la loro Asl non voleva concedere un’autorizzazione per le cure fuori provincia. «Dopo due mesi riuscimmo a ottenere il permesso e a ricoverare Maria Paola. Ma con il senno del poi posso dire che quella non era la struttura adeguata allo stato sia fisico che psicologico in cui si trovava mia figlia». A questo si aggiunge uno scarso rendimento scolastico che ha peggiorato la depressione di Maria Paola abituata a prendere voti alti a scuola. «Oggi, come associazione, ci battiamo per la formazione dei docenti nelle scuole: devono venire incontro quando ci sono problematiche del genere», dice Giuseppe Rauso. Dopo alcuni mesi di inizio del percorso, Maria Paola si toglie la vita. Lascia una lettera in cui ringrazia i suoi genitori per tutto quello che hanno fatto per lei, poi se ne va, consumata dall’anoressia. «Ho visto mia figlia sparire davanti ai miei occhi», dice Giuseppe. E ai genitori che si trovano ad affrontare il problema dei figli malati di anoressia dice di «non vergognarsi» e di non «incolparsi tra di loro per non dividere la famiglia che peggiora solo la situazione». Mentre alla mamma e al papà di Lorenzo vorrebbe dire: «Di non sentirsi in colpa perché i genitori fanno sempre il massimo. A volte bisogna arrendersi davanti al destino».
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