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Coronavirus, prove generali di smart working in Italia. Con tutti gli ostacoli del caso

25 Febbraio 2020 - 18:38 Redazione
Secondo Bloomberg è in corso il più grande esperimento di lavoro da remoto nel mondo. Ma in Italia non è così semplice

​Sono passate meno di 24 ore dalla firma del Dpcm da parte del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in merito allo smart working come reazione alla diffusione di Coronavirus e già non si fa altro che parlare di lavoro da remoto. E così, l’emergenza da SARS-CoV-2 ha spinto l’Italia a fare i conti con un’accelerazione improvvisa sul tema, in un contesto nazionale in cui i datori di lavoro e le aziende faticano ancora a dare fiducia ai nuovi strumenti del mercato del lavoro.

«La modalità di lavoro agile – si legge nel decreto – è applicabile in via automatica, fino al 15 marzo 2020, nelle Regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria, a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei princìpi dettati dalle menzionate disposizioni, e anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti».

È già noto come in Cina si stia andando in questi mesi verso una diffusone maggiore, salvando, di fatto, buona parte della produttività delle aziende. Secondo Bloomberg, è in corso il più grande esperimento di lavoro da remoto nel mondo, e secondo il Segretario Generale aggiunto della Cisl, Luigi Sbarra, la decisione di Conte è più che positiva. La possibilità di lavorare da casa «rappresenta l’unica modalità veloce per evitare che certe attività si fermino».

Telelavoro o smart working?

Molte di queste misure “cuscinetto”, però, non sono propriamente considerabile smart working, bensì un ibrido tra lavoro agile e telelavoro. Il primo è a pieno titolo una modalità “flessibile” di lavoro: nei range orari disegnati dall’azienda, e nelle proporzioni stabilite dalla legge 81/2017, il dipendente può decidere in autonomia il tempo e il luogo in cui svolgere la professione.

Nel telelavoro, invece, la postazione è concordata da contratto – benché possa essere cambiata dopo una modifica degli accordi tra le due parti (art. 2 co. 2, Accordo Interconfederale 9 giugno 2004). Anche l’orario di lavoro non è flessibile, ma ci sono precise indicazioni su quando iniziare e quando finire il proprio turno.

Il rischio di un mix che non funziona

Il Dpcm, anticipato dal Decreto Legge numero 6 emanato allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, non chiarisce bene in che modo le parti, anche senza l’accordo individuale, possano attivare lo smart working. Secondo alcuni esperti del diritto del lavoro, come Marco Menegotto di Adapt, più che di un lavoro da remoto “liberalizzato” dall’emergenza, sarebbe meglio affidarsi semplicemente al telelavoro – che può funzionare nel breve periodo anche senza fare appello allo smart working.

I numeri dello smart working in Italia

È allora chiaro che la situazione straordinaria sta facendo emergere i limiti della legge sul lavoro agile in Italia, e alle resistenze dovute al difficile accordo tra governo e aziende. Ma anche alla resistenza dei datori di lavoro, che difficilmente fanno pace con l’idea di non poter “controllare” fisicamente i propri dipendenti durante l’orario. Uno stallo che penalizza su tutti i lavoratori freelance, che di flessibilità vivono e che hanno bisogno di normative funzionanti.

Come ha dichiarato all’Huffington Post Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università Sapienza di Roma, «in Italia c’è una resistenza al cambiamento che definirei patologica. Non riusciamo ad abbandonare l’idea di dover per forza lavorare da un’altra parte, di doverci spostare da casa per raggiungere l’ufficio».

Dati Eurostat

Stando a quanto riportato da uno studio condotto dall’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, sono ormai circa 570mila i “lavoratori agili” in Italia, in crescita del 20% rispetto al 2018. Ma, stando ai dati dell’Eurostat, il nostro Paese è ancora sotto la media europea per utilizzo dei vantaggi forniti dalla tecnologia. In Italia la crescita è lieve e rallentata: solo il 3,6% dei lavoratori può giovare dei vantaggi offerti dal XXI secolo.

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