Quanto è mortale il nuovo coronavirus in Italia? Perché la domanda non ha molto senso
Walter Ricciardi dell’Oms ha affermato, nell’ottica di ridimensionare l’allarme sanitario italiano sul Coronavirus, che «su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, il 5% è gravissimo, di cui il 3% muore». La percentuale dei decessi farebbe dunque riferimento al 5% dei casi molto gravi, non a tutti in generale. Si tratta a ogni modo di un dato “crudo”da contestualizzare. Non è possibile oggi avere stime certe a livello globale sulla mortalità del virus.
Occorre avere bene in mente la differenza sostanziale tra quanto sta succedendo nella Regione dell’Hubei e il resto del mondo. Al di fuori della regione del focolaio principale, la Cina in linea di massima ha delle statistiche non molto diverse dagli altri Paesi. Forse un buon metro per avere una visione di insieme potrebbe essere andare a vedere le statistiche sui casi chiusi. Nel momento in cui scriviamo sono oltre 27mila i guariti, a fronte di oltre 2700 morti.
Epidemia da sovranotifica?
Una buona fonte per conoscere la mortalità del virus – tenuto conto dei limiti dovuti ai casi lievi che sfuggono al conteggio, e dalla diversa rigidità con cui vengono fatti nel mondo i controlli – è Jama (Journal of the American Medical Association). La rivista scientifica dell’associazione medica americana ha pubblicato il 24 febbraio un articolo firmato da Zunyou Wu e Jennifer M. McGoogan, ricco di dati interessanti sull’entità dell’epidemia, basati sulle diverse caratteristiche dei pazienti. Cosa possiamo dire dunque della situazione italiana, senza correre il rischio di disinformare?
Non sappiamo molto. I dati italiani soffrono di un grosso bias: conosciamo solo i casi confermati, non il totale effettivo dei contagiati, che potrebbe essere più ampio. La “mortalità” (numero dei morti correlati alla malattia) viene poi spesso confusa con la “letalità”, ovvero quanto la malattia in sé può essere mortale; ovunque sappiamo di decessi dovuti a patologie pregresse nei pazienti, che li avrebbero messi a rischio anche con altre infezioni. Jama, ad esempio, attribuisce un valore di mortalità stratificato sulla base dell’età. Facciamo alcuni esempi: sotto i 10 anni è prossima allo zero; dai 10 ai 15 è dello 0,2%; sopra gli 80 anni è del 18%.
I nostri dati provengono dagli individui testati, sulla base dei vari fattori di rischio, seguendo le direttive dell’Oms. Parliamo di oltre quattromila test, da cui abbiamo ricavato una percentuale tra il 10 e il 15% di positivi. Il dato sembra piuttosto alto, ma non sappiamo come si modificherebbe se avessimo la possibilità di testare tutta la popolazione: probabilmente si ridurrebbe significativamente. Come spiega l’infettivologo Stefano Zona dell’associazione IoVaccino – riferendosi al cambiamento del metodo di notifica in Cina – «in situazioni come questa è difficilissimo tenere correttamente il conto dei casi», mentre esiste anche l’altra faccia della medaglia, quella della sovranotifica:
«Siamo in stagione influenzale – continua Zona – è probabile che ci siano persone con influenza che verranno conteggiate come COVID-19. È un problema? No, non è un problema: basta tenere presente questo limite del metodo. Quello che ci interessa è vedere il trend nel tempo, non avere i numeri precisi al millesimo».
Foto di copertina: ANSA | Due donne indossano la mascherina sedute in metropolitana a Milano
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