L’ora della verità
Da oggi la vita degli italiani cambia, come mai era successo negli ultimi trent’anni. Studenti senza scuola, attività rarefatte o bloccate, ogni forma di aggregazione vietata o pesantemente inibita. Convegni, congressi, manifestazioni, concerti, eventi sportivi. Di fatto un invito a stare a casa, pressante per gli anziani, sostanziale per tutti: chi lavora viene spinto allo smartworking, chi studia con l’applicazione di Google Classroom o a altri strumenti per proseguire la didattica, per gli orfani di cinema, teatri e soprattutto stadi il ripiego obbligatorio della tv. Per tutti, un’immersione continua nei social, sostituto già molto avviato del contatto umano, che ora è addirittura sconsigliato per legge.
A scuola, quando ci si andava, si studiava anche il Decamerone di Boccaccio, i famosi dieci giorni al riparo di una casa isolata per sfuggire alla peste. Ora la realtà di una dimensione senza aule, uffici o ritrovi ci confina in casa con smartphone, pc e tv. Un periodo di vita inattiva e confinata, tutti a fare le stesse cose che si facevano fuori, con le città vuote. Siamo ancora distanti dal disegno visionario di quel film di animazione, Wall-e, per fortuna. E tutti speriamo di ritrovare la vita normale al più presto.
Nel frattempo il nostro compito sarà, come e più di prima, di darvi notizie e testimonianze. Open, e lo stesso vale per tutti gli altri che hanno fatto informazione su quel che stava succedendo, è stato accusato di allarmismo, catastrofismo, procurata psicosi, magari con l’aggravante di farlo per “clickbaiting” ovvero per fare più traffico. È sempre così nei tempi difficili: nei più diffidenti o impauriti scatta l’impulso di dare la colpa della febbre al termometro. E non è solo un modo di dire: in tanti sostengono che l’Italia è stata investita dal contagio più degli altri paesi perché abbiamo usato il tampone. Letteralmente “ce la siamo cercata”.
Lo sentiamo ancora dire oggi, con più di cento morti, più di tremila casi, intere aree del paese isolate. La verità è che se non si fosse agito, informato e deciso di conseguenza i decessi, i contagi e le zone rosse sarebbero oggi molti di più. E nessun paese può nascondere un simile devastante fenomeno: non in democrazia, non al tempo dei social. Se fai meno tamponi scopri meno casi, ma non salvi più vite, anzi estendi il contagio. L’Italia ha semmai avuto la sorte opposta, di aver scoperto il contagio tardi, e con ogni probabilità la sfortuna ha voluto che si propagasse dal luogo meno indicato, un ospedale.
Abbiamo passato settimane a dividerci sui cinesi, possibili untori o vittime di pregiudizio. Tutto inutile: il Coronavirus nasce in Cina, certo, ma a oggi non è stato trovato un solo cinese positivo sul nostro territorio. Il rischio di contagio nel mangiare in un ristorante cinese è identico a quello del bar sotto casa. Essere e restare informati vuol dire anche questo: vivere la fase di emergenza in modo consapevole, combattendo anche i mostri dell’ignoranza ostile e della paura che si fa psicosi. Perché sono il buio e il vuoto gli scenari preferiti del terrore e di chi ci specula sopra. Non le notizie.
Il parere degli esperti:
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