L’invasione di locuste in Africa. Colpa del cambiamento climatico?
Il 2020 non si è aperto nel migliore dei modi per il pianeta. A pochi mesi dal suo inizio e dopo l’epidemia globale di Coronavirus, i 18 gradi in Antartide a febbraio e gli incendi in Australia, un altro fenomeno si manifesta in tutta la sua inquietante somiglianza a una piaga biblica: l’invasione di sciami di locuste, nel Corno d’Africa, in particolare del Kenya.
Questi voraci insetti stanno devastando raccolti e vegetazione mettendo in ginocchio la popolazione locale già stremata da fame, alluvioni e instabilità politica. Se uno sciame di un chilometro quadrato – dunque dalle dimensioni tutto sommato ridotte – può arrivare a consumare lo stesso quantitativo di cibo di 35mila persone, quello di 2.400 chilometri quadrati recentemente individuato in Kenya ha un tasso di consumo per pasto equiparabile a quello di 85 milioni di persone. Un dato impressionante che è stato evidenziato dal vice direttore della divisione Emergency and Resilience della FAO, Daniele Donati.
I Paesi coinvolti dall’invasione
Quest’esercito di cavallette comprenderebbe tra i 100 e i 200 miliardi di esemplari e si sarebbe diffuso dallo Yemen attraverso il Mar Rosso. Le forti piogge di fine 2019, infatti, hanno creato le condizioni ideali per questi insetti che, oltre a Kenya, Etiopia e Somalia, si sono riprodotti anche in India, Iran e Pakistan.
Per il Kenya, dove l’agricoltura costituisce un terzo del Pil nazionale, si tratta della peggior invasione di locuste degli ultimi 70 anni. Un danno economico e umanitario di dimensioni catastrofiche per il Paese, oltre che una minaccia per tutto il continente. Già, perché vista la velocità con cui si spostano – una volta che sono in grado di volare possono percorrere fino a 150 chilometri al giorno -, non è improbabile immaginare che gli sciami si diffondano a breve in altri Stati limitrofi alla ricerca di cibo.
Le conseguenze umanitarie ed economiche
Se non si interviene immediatamente, in primavera la situazione potrebbe addirittura peggiorare. La Fao avverte, infatti, che una seconda schiusa di uova potrebbe mettere a rischio la sicurezza alimentare di circa 25 milioni di persone nella regione, una situazione descritta dalle Nazioni Unite come «estremamente allarmante».
«Mais, saggina, fagioli, hanno mangiato tutto», ha raccontato al Guardian Ndunda Makanga, un allevatore locale che trascorre intere ore a rincorrere le locuste nel tentativo di allontanarle dalla propria fattoria. «Anche le mucche si domandano costa sta succedendo».
Secondo le Nazioni Unite, con l’arrivo della pioggia a marzo e la conseguente ricrescita della vegetazione in gran parte della regione, il numero delle cavallette potrebbe aumentare di ben 500 volte prima che il clima più secco di giugno freni la loro diffusione. Uno scenario che bisogna in ogni modo cercare di evitare.
Ostacoli e soluzioni
Servono circa 70 milioni di dollari per intensificare l’irrorazione di pesticidi aerei che, nonostante le evidenti controindicazioni per la salute, rappresentano l’unica misura efficace per combattere le locuste. Non si tratta però di un compito facile. In Somalia, ad esempio, parti del Paese sono in mano al gruppo estremista di al-Shabab, legato ad al-Qaida.
Oltre agli ostacoli politici, poi, ci sono anche oggettivi limiti tecnici. Sia il Kenya sia l’Etiopia hanno bisogno di più attrezzature a spruzzo per integrare i quattro aerei attualmente operativi per Paese, ha fatto sapere Kipkoech Tale, specialista nel controllo dei parassiti migratori presso il ministero dell’Agricoltura del Kenya. E, come se non bastasse, serve anche una fornitura costante di pesticidi.
Il legame con i cambiamenti climatici
Ma cosa ha portato a questa disastrosa situazione? Secondo gli esperti, sarebbe una concorrenza di condizioni meteorologiche e climatiche insolite ad aver causato l’inaspettata invasione, a partire dai cicloni che hanno colpito la penisola araba nel 2018.
Come osservato dalla Nasa, in condizioni normali possono passare anni senza che si formi un singolo ciclone sul Mar Arabico. E se il 2018 è stato un anno abbastanza burrascoso, il 2019 è stato decisamente estremo, con la parte settentrionale dell’Oceano Indiano che ha superato molti record – tra cui il maggior numero di giorni con uragani in azione e il picco di “accumulo di energia da ciclone”, una misura della potenza distruttiva della stagione.
Questa tempestosità, in particolare nel 2019, è legata al dipolo dell’Oceano Indiano, ovvero la differenza di temperatura tra le due sponde del bacino oceanico indiano che si accentua o cambia di segno in modo ciclico, oscillando tra stati positivi, negativi e neutrali. Il problema è che lo scorso autunno il dipolo ha toccato il maggior picco di positività dal 1870 ad oggi, spiega Wenju Cai, scienziato del clima presso l’agenzia scientifica nazionale australiana CSIRO.
Le conseguenze si manifestano con esiti meteorologici opposti e di uguale intensità a migliaia di chilometri di distanza tra loro. Da una parte forti nubifragi e inondazioni in Africa orientale che, oltre all’eccezionale diffusione delle locuste, causano frane e morti. Dall’altra – in Australia – forti venti secchi, caldo ed estrema siccità favoriscono la propagazione di incendi.
Un pattern che, secondo gli esperti, non è altro che l’espressione dell’estremizzazione climatica, tra le principali conseguenze del riscaldamento globale.
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