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Coronavirus, il racconto di un’infermiera: «Combattiamo una guerra, ma non siamo preparati. La parte più difficile è scegliere quale vita salvare»

13 Marzo 2020 - 06:33 Olga Bibus
«Il governo si è ricordato della sanità quando l'emergenza era già scoppiata. Stanno richiamando adesso le persone dalle graduatorie per farle entrare in servizio, ma non sono preparati, non lo ero nemmeno io e lavoro da diversi anni», racconta Giulia a Open

La sveglia suona molto presto, verso le 4 di mattina. Giulia – nome di fantasia – esce di casa, sale in macchina e va in ospedale per affrontare un nuovo turno che non sa quando finirà. Ha meno di 30 anni, fa l’infermiera da cinque anni. Ha iniziato appena laureata, prima strutture private, poi è riuscita a vincere il concorso e a prendere servizio nell’ospedale di Rimini. Fino a qualche giorno fa lavorava in un altro reparto, poi all’improvviso, l’hanno spostata nel pronto soccorso di Riccione per fronteggiare l’emergenza coronavirus. «Mi hanno buttata dentro con un affiancamento durato solo qualche ora, non c’è tempo, le persone continuano ad arrivare e noi non sappiamo dove mettere le mani – racconta a Open. – Ogni giorno è come se combattessimo una guerra per cui non eravamo preparati. Ma la parte più difficile è scegliere chi intubare, cioè scegliere a chi salvare la vita».

Nessuno è mai davvero pronto per un guerra. Non crede?

«Certo, ma noi siamo stati mandati al fronte senza armi e munizioni. Tutt’ora lavoriamo con le mascherine FFP2, quelle senza filtro. Abbiamo poche tute negli ospedali. Fino a pochi giorni fa nei reparti è arrivato a mancare persino l’igienizzante per le mani, i sanitari lavoravano senza mascherine: si vedeva la situazione surreale in cui i parenti arrivavano con le mascherine, mentre noi non ce le avevamo. Da anni si fanno tagli nella sanità, non ci sono mezzi, ma anche il personale per gestire un’emergenza simile. Ne stiamo pagando il conto noi, ma anche gli stessi pazienti ed è un conto molto pesante che a volte si paga anche con la vita».

In che senso?

«Noi abbiamo ricevuto indicazione di non intubare più i pazienti sopra gli 80 anni, in caso di emergenza. Così, in poche parole, a volte, ci si trova a scegliere chi salvare e chi lasciar vivere. Succede quando non ci sono ventilatori per tutti e posti letto per tutti. Queste persone sono padri, mariti, nonni. Ed è la parte più difficile di tutta questa situazione. Io faccio l’infermiera, vedere qualcuno che sta male e non poterlo aiutare mi sconvolge. E se i numeri delle persone contagiate continuerà a salire, l’età di intubazione si abbasserà. Torno a casa e piango ogni giorno».

Perché è stata spostata al pronto soccorso?

«Perché mancavano gli infermieri, molti sono stati messi in quarantena dopo i primi casi. A Riccione molti reparti sono stati chiusi e sono diventati reparti Covid. Ma ormai i posti sono finiti anche qui. Non sappiamo dove mettere i pazienti e mancano i ventilatori, per questo dobbiamo scegliere».

Com’è lavorare in emergenza ai tempi del coronavirus?

«Molto difficile. Sono stata catapultata in un reparto così delicato senza la formazione adeguata perché non c’è tempo. I primi giorni non sapevo dove mettere le mani. E lavorare con la tuta è molto faticoso, a volte mi sento soffocare così tanto che penso che mi stia per venire un attacco di panico. Poi, quando stiamo in quelle tute non possiamo andare in bagno, mangiare, bere. Non possiamo fare nulla, infatti ogni tre ore dovremmo fare cambio con chi lavora nell’area no-Covid, ma spesso non succede e dopo un intero turno con la tuta ti senti davvero svenire».

Com’è l’umore tra i suoi colleghi

«Non mancano momenti di crollo. Ci sono medici e infermieri che lavorano senza riposo da 10-20 giorni, altre volte capita di fare anche turni da 12 ore. Ogni giorno vedo colleghi che scoppiano a piangere, poi però ci si asciuga le lacrime e si torna a lavorare. C’è anche però tanta collaborazione tra noi, ci si copre a vicenda e sentiamo la solidarietà anche da fuori. Oggi per esempio alcune persone di Riccione hanno portato in ospedale acqua e cibo per mostrarci la loro vicinanza. Sono gesti che fanno piacere».

Secondo lei, le nuove misure prese dal governo sono sufficienti per far fronte all’emergenza?

«Secondo me dovevano arrivare prima. Ma adesso dobbiamo impegnarci tutti per seguire le nuove disposizioni, l’isolamento è l’unico modo per contenere l’epidemia. Nella sanità vedo che qualcosa si sta muovendo, ma anche qui sono arrivati in ritardo. Stanno richiamando adesso le persone dalle graduatorie per farle entrare in servizio, ma questo non risolve il problema perché chi arriva ora non è formato per gestire la situazione. Non ero pronta io che lavoro da anni, figuriamoci chi entra per la prima volta in ospedale. Il problema è che il governo si è ricordato della sanità e di noi infermieri quando la situazione era già di emergenza. Sono anni che denunciamo carenza di risorse e di personale e nessuno ci ha mai ascoltati».

Molti giovani, ragazzi della sua età, continuano a sottovalutare il pericolo, lo vediamo ogni giorno nei video che circolano in rete. Cosa direbbe loro?

«Di stare a casa, di essere collaborativi, di farlo non per loro, ma per i loro genitori, nonni, parenti. Di non essere egoisti, perché loro se si ammalano, probabilmente sono abbastanza fortunati da guarire in fretta, ma le persone anziane o già malate no. Le persone muoiono, lo vedo ogni giorno. E le dirò di più, ci sono anche giovani che stanno molto male, a Rimini so che ci sono diversi casi. Anche qui da noi c’è una dottoressa 30enne che è stata molto male e ora è a casa in isolamento. Questa non è una semplice influenza. Bisogna ricordarlo».

Immagine di copertina: Foto generica

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