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Coronavirus, aumentare i test dai tamponi potrebbe aiutare a frenare i contagi? – L’intervista

Secondo Foad Aodi, presidente dell'associazione medici stranieri in Italia, fare test a tappeto non serve: «La soluzione passa per il comportamento responsabile dei cittadini e le decisioni tempestive della politica»

Raggiungere al telefono un infettivologo in queste ore è un’impresa titanica. L’impegno sul campo e le pressioni attorno a una comunicazione corretta dell’emergenza da Coronavirus a livello mediatico tengono occupate le linee di virologi ed esperti. Ma sono tante ancora le domande che rimangono senza risposta, e, su tutte, ce n’è una che sta facendo discutere maggiormente: qual è il corretto utilizzo dei tamponi per una migliore gestione dei contagi?

Dopo un iniziale lasseiz-faire, durante il quale chiunque avesse voluto togliersi il dubbio di non aver contratto il Covid19 era libero di recarsi negli ambulatori a richiedere il test, la politica è intervenuta imponendo un freno alle analisi a tappeto. Nonostante le resistenze e le proteste di alcune Regioni (tra cui il Veneto), la linea sembra essere destinata a rimanere questa, stabilita ormai alla fine del mese scorso. Una strategia che, però, continua a non mettere d’accordo le parti in gioco.

In queste settimane di aumento sregolato dei contagli, le opinioni degli esperti si sono moltiplicate. Secondo Walter Ricciardi, consigliere del ministero della Salute ed ex presidente dell’Istituto superiore di Sanità, «il nostro Paese di tamponi ne ha già fatti abbastanza, più di tutta Europa». Ma se per lui «farne tanti rappresenta una mossa controproducente», secondo altre voci l’unica soluzione al contenimento della pandemia è proprio «andare a cercare il virus casa per casa».

Il virologo Andrea Crisanti, che ha gestito l’emergenza nel focolaio veneto di Vo, ha commentato in un’intervista a La Repubblica che «per controllare un’epidemia ci sono due misure cardine. La prima è l’isolamento dei positivi; la seconda è l’identificazione attiva dei casi». Più o meno sulla stessa linea è anche l’infettivologo Massimo Galli, primario all’Ospedale Sacco di Milano, che ha dichiarato ad Avvenire che «la scelta di fare il test solo a chi ha i sintomi impedisce di avere la dimensione reale del fenomeno», non permettendoci di sciogliere l’interrogativo attorno alle tempistiche sul picco dei contagi.

Marcello Tavio, direttore di Malattie infettive alle “Torrette” di Ancona e presidente della Smit, intervistato da Il Manifesto, ha tagliato la questione da un’altra prospettiva, mettendo in luce che «dovrebbero esserci più siti di accesso ai tamponi e più test per chi ha sintomi». Ma a rimanere fermo sulle sue posizioni è il presidente dell’Amsi (Associazione dei medici stranieri in Italia) Foad Aodi. «Fare tamponi a tappeto non è la soluzione», ha detto raggiunto da Open. «La soluzione arriverà dalle decisioni della politica sulla gestione dei confini e sul comportamento responsabile della cittadinanza».

Dottor Foad Aodi di Amsi

Dottor. Aodi, lei si occupa dell’emergenza fin dall’inizio, rimanendo in costante contatto con i medici che hanno lavorato in Cina. Pensa che sarebbe una strategia vincente estendere i tamponi?

«Assolutamente no. L’abbiamo detto chiaramente fin dall’inizio: la strategia migliore è fare il tampone solo ai casi sintomatici. E su questa linea deve porsi anche la comunicazione dei decessi. Spesso, molte delle notizie che vengono date in merito ai morti non sono casi confermati “per” coronavirus, ma solo pazienti “con” coronavirus. Noi chiediamo da tempo di comunicare solo i casi positivi con tamponi sintomatici. Altrimenti il rischio è la psicosi, che crea fuggi fuggi e mette i bastoni tra le ruote all’unica strategia vincente che esiste».

Quale?

«Quella di limitare gli spostamenti e seguire le indicazioni del ministero della Salute. Le uniche cose che ci permetteranno di uscire dall’impasse saranno il comportamento responsabile dei cittadini e le decisioni tempestive della politica.

Noi avevamo proposto già settimane fa di interrompere Schengen (e quindi chiudere i confini tra i vari Paesi dell’Ue, ndR), perché sapevamo che si sarebbe creata una psicosi anti-italiani all’estero. E nel frattempo, mentre l’Italia adotta misure drastiche, gli altri Paesi non fanno lo stesso. Si rischia così di risolvere la questione qui, ma di riaprirla non appena si allenteranno le misure e si tornerà a viaggiare».

Lei ha un quadro internazionale della faccenda. L’Italia come sta gestendo l’emergenza?

«Purtroppo l’Italia per motivi politici si è mossa in ritardo. E, come è successo per la Cina, il nemico maggiore sono le soluzioni lente. Nelle interviste per le emittenti estere in cui sono chiamato a parlare mi viene fatta sempre la stessa domanda: ma come è possibile che sia successo proprio all’Italia, Paese altamente civile e con un sistema sanitario d’eccellenza, e come è possibile che non sia riuscita a tenere sotto controllo l’epidemia?

La mia risposta è che è mancata la buona politica. La buona politica che ci mette in condizione di lavorare serenamente. Guardiamoci intorno: non c’è organizzazione, manca il personale, mancano gli specialisti, mancano gli anestesisti. La politica se ne accorge solo oggi, e oggi è già tardi».

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