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Smart working, lavoro domestico, cura dei figli, violenze: quanto pesa l’emergenza coronavirus sulle donne con basso reddito

Tra un hashtag su twitter e una sessione yoga sul balcone, resistono problemi che, spesso, gravano sulla schiena di donne che non guadagnano abbastanza per liberarsi del lavoro domestico

Quanto è grande una casa? Troppo, per chi deve gestire il lavoro domestico e di cura parallelamente (e contemporaneamente) al lavoro retribuito. Troppo poco, per le persone costrette a lavorare da remoto con tutta la famiglia in casa, senza che si abbia una piano dove isolarsi o una stanza in più nella quale chiudersi qualche ora. L’emergenza Coronavirus, che ha imposto lo stop delle scuole, la chiusura delle attività «non essenziali» e che ha incoraggiato il lavoro da remoto è un fardello che pesa ancora una volta sulle donne dai redditi medio-bassi.

Nei giorni che hanno seguito il decreto presidenziale del consiglio dei ministri del 9 marzo – quello che ha reso tutta l’Italia una «zona protetta» – la romanticizzazione della quarantena nelle mura domestiche è diventata il leitmotiv dei social network e dei messaggi televisivi. #Iorestoacasa è l’hashtag del momento: immagini di celebrità che vedono un film e ci ricordano «quanto è comodo il divano di casa», messaggi di atleti professionisti che si allenano nelle sale da pranzo, story di libri sul comodino da leggere nelle lunghe e vuote ore dell’ “isolamento”.

La realtà, però, per una gran fetta del Paese, è ben diversa. Senza scomodare la tragedia di chi una casa dove vivere e lavorare non ce l’ha, alla narrazione ottimistica della quarantena nelle mura domestiche si accosta tutta una serie di problematiche enfatizzate dalla costrizione allo spazio privato. Come ha sottolineato il New York Times, il fardello delle misure emergenziali contro la diffusione del Covid19 ricade «in maniera particolarmente dura sulle donne, che in tutto il mondo sono ancora le maggiori responsabili della cura dei figli».

«Lavoro da casa e lavoro di casa: praticamente lavoro 24 su 24», scrivono su Facebook le attiviste di Non Una di Meno, il movimento femminista che in questo periodo si sta facendo portavoce delle istanze delle donne che non hanno i privilegi economici per poter far fronte all’emergenza. L’eco del problema è arrivato anche al governo, che con il decreto “Cura Italia” del 16 marzo ha stanziato 1,2 miliardi per il voucher baby sitter o, in alternativa, un congedo parentale per le assenze straordinarie di questa fase, pari al 50% della retribuzione.

Se saranno o meno misure sufficienti (oltre che decisioni emergenziali) sarà l’esperienza di milioni di famiglie a testimoniarlo – posto che resterà comunque difficile conciliare smart working e bonus baby sitter in una casa non abbastanza grande da dividere gli spazi. Ma di certo il Covid19 ci mette davanti, ancora una volta, alla necessità di rivedere la divisione dei ruoli nel lavoro di cura, costringendoci a guardare la quantità di lavoro domestico non retribuito portato avanti dalle donne.

A tal proposito, stando a uno studio pubblicato dall’Usb (Unione Sindacale di Base) dal titolo «I lavori delle donne tra produzione e riproduzione sociale», le italiane, insieme alle romene, sono al primo posto nell’Unione Europea per quantità di tempo speso nel lavoro di cura, con una media di 5 ore. Gli uomini occupati, al contrario, dedicano 1 ora e 47 minuti al lavoro domestico e di cura non retribuito. Sono all’ultimo posto, insieme ai greci, nella classifica europea.

E se la casa non è sicura?

A complicare ancora di più il quadro c’è la questione delle violenze domestiche. La standardizzazione di un modello familiare da mulino bianco difficilmente aiuterà le donne che subiscono abusi ad essere tutelate durante il periodo di isolamento. Secondo uno studio dell’Istat, 2 milioni e 800 mila donne hanno subito violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner (il 13,6% delle intervistate). Le forme più gravi di violenza sono esercitate proprio dalle persone più vicine (partner, parenti o amici): gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi dai propri compagni, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Anche le violenze fisiche (come gli schiaffi, i calci, i pugni e i morsi) sono per la maggior parte opera dei partner (o ex).

«In questi giorni di emergenza sanitaria ci viene chiesto di rimanere a casa per la nostra e altrui sicurezza», scrive in un appello su Facebook Lucha y Siesta, una delle poche strutture d’assistenza per le donne a Roma, che si occupa anche di dare asilo e supporto a chi è stata vittima di violenze. «Pur convinte che le disposizioni del decreto siano le uniche possibili in questo momento, sappiamo che per alcune donne, la propria casa non è affatto sinonimo di sicurezza, anzi».

«Per tante donne, andare a lavoro o accompagnare i bambini a scuola – si legge ancora – significa poter sfuggire anche solo per poco alle dinamiche di violenza domestica e di potere nelle quali vivono tutti i giorni, e al momento ciò non è possibile. Sappiamo anche che in periodi di crisi, come quella che stiamo vivendo, le dinamiche violente si acuiscono». Le sfaccettature della vita domestica, dunque, sono molto più problematiche di quanto non si pensi.

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Foto copertina: Sharon McCutcheon su Unsplash

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