Coronavirus, l’Oms chiede più test. Si ritorna a parlare del modello Corea del Sud tra tamponi e big data: ma quanto è attuabile?
«Se trovo un solo positivo significa che avrò 10 contagi in meno». Per il governatore del Veneto, Luca Zaia, la strada da seguire per fermare la curva dei contagi di Coronavirus è solo una: controlli a tappeto. Da giorni il presidente Zaia invoca un aumento considerevole del numero dei test per individuare pazienti asintomatici. Un modello adottato a Vo’ Euganeo, focolaio veneto dell’epidemia, dove in controtendenza con la strategia italiana di fare tamponi solo a sintomatici si è optato per una strada più aggressiva testando l’intera popolazione.
Un’opzione che ricalca quanto fatta in Sud Corea. Fino a due settimane fa il Paese asiatico era subito dietro la Cina per numero di contagi, ma da qualche giorno la crescita degli infetti sembra essersi fermata. Con 8mila casi positivi registrati e solo 81 morti il dibattito cresce attorno alla possibilità dell’Italia di replicare quanto fatto in Corea del Sud.
La risposta di Seul
Il Paese ha messo in campo una formidabile capacità di sottoporre a screening circa 275mila persone attraverso stazioni di tamponi mobili, e senza scendere dalla macchina, in grado di testare pazienti in pochi minuti. Individuando in questo modo anche un gran numero di persone asintomatiche.
«È ovvio che il contact tracing è l’arma maggiore e più efficace che abbiamo per bloccare un contagio in assenza di vaccinazione. L’identificazione precoce dei casi e il loro isolamento con il tracciamento dei contatti», chiarisce a Open il professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo, responsabile del coordinamento regionale delle emergenze epidemiologiche in Puglia.
Gli asintomatici e la strategia italiana
Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Science il 79% dei casi confermati è da attribuire a pazienti asintomatici. Un dato che rivela l’importanza della tracciatura a tappeto dei pazienti che non presentano sintomi, come fatto in Sud Corea. Ma «questo è scritto sui manuali – afferma Lopalco – su come fare e sulla capacità del sistema di organizzarsi per fare questo tipo di lavoro è tutto da definire. Fino a ora la strategia che noi stiamo adottando è quella di identificare precocemente tutti i casi sospetti».
In Italia la strategia è stata quindi in controtendenza con quella adottata dal Paese asiatico. Anche secondo Walter Ricciardi fare tanti tamponi «rappresenta una mossa controproducente», per combattere l’epidemia. «In questo momento ci stiamo concentrando sui sintomatici – continua Lopalco -. È ovvio che questa strategia è legata alla disponibilità e capacità dei laboratori presenti sul territorio. Per fare i test serve una macchina che deve girare per 3- 4 ore, servono dei tecnici», dice l’epidemiologo che chiarisce come vi siano già abbastanza difficoltà nel portare avanti la strategia di tamponare e isolare tutti i contatti sintomatici.
Ma spostare l’attenzione sugli asintomatici potrebbe essere controproducente. «Testare in gran numero di persone può mettere a dura prova i sistemi ospedalieri», ha dichiarato Massimo Antonelli, direttore della terapia intensiva presso la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma, in un’intervista a Reuters.
L’Oms: «Test, test, test»
Due giorni fa l’Organizzazione mondiale della sanità, nonostante abbia da una parte lodato le misure sulla “distanza sociale” e l’isolamento adottate da molti Paesi, dall’altra ha chiesto di fare di più per quanto riguarda «il test, l’isolamento e il tracciamento». Misure che ha definito essere la «spina dorsale» della risposta all’emergenza.
Ma «una cosa è fare un proclama, un’altra cosa è calarlo nella realtà epidemiologica e rendere una strategia, una strategia fattibile», afferma Lopalco. «L’organizzazione mondiale della sanità ha detto test, test, test, ma non ha detto test agli asintomatici. Non bisogna fraintendere i messaggi dell’Oms, quello che stiamo facendo oggi in italia, secondo il mio parere, è quello che si può oggettivamente e ragionevolmente fare. E se manteniamo questa strategia riusciremo a rallentare l’epidemia in maniera consistente». Sull’aumento del numero dei tamponi la priorità deve essere una sola secondo Lopalco: «Partire dagli operatori sanitari», perché i canali di trasmissione del virus sono soprattutto gli ospedali.
Big data e App: la tecnologia nella strategia sud coreana
Ma un grosso aiuto nella lotta al coronavirus, oltre alla grande quantità di tamponi, in Sud Corea è arrivato anche dalla tecnologia. Attraverso i filmati di telecamere di sorveglianza e il tracciamento di transazioni con carta di credito, il governo è riuscito a implementare un’App che permette di verificare gli spostamenti ed essere avvertiti quando si arriva a 100 metri da un luogo visitato da una persona contagiata.
L’articolo 76-2, paragrafo 2, della legge sulla prevenzione e il controllo delle malattie infettive della Corea del Sud (IDCPA), modificato in seguito all’emergenza dell’epidemia MERS, permette al ministero della Salute di raccogliere dati privati, senza un mandato, sia da pazienti già confermati che potenziali. Insieme, queste disposizioni hanno permesso alle autorità di estrarre filmati di sorveglianza, transazioni di carte di credito e dati di geolocalizzazione cellulare di pazienti confermati e potenziali senza mandato. Questo spiega come il governo sudcoreano sia stato in grado di «rintracciare rapidamente» centinaia di migliaia di cittadini per frenare l’epidemia.
Il modello Sud Corea per superare il lockdown
Un controllo intrusivo, ma che potrebbe, forse, aiutare a superare il lockdown. «Non si può restare con un Paese bloccato per mesi, non per ragioni economiche ma perché il Paese non è in grado di starci. Quindi una volta che il tasso di contagio si è stabilizzato, a quel punto è il caso di cercare di identificare chi è ancora positivo e isolarli», dice Alberto Biasin, accademico italiano e professore di economia presso la New York University. «Dobbiamo necessariamente pensare a cosa fare una volta superato il lockdown»
«La psicologia delle persone è un elemento fondamentale, almeno in campo economico. I meccanismi psicologici e di comportamento delle persone sono fondamentali. Quando si mette un Paese in lockdown come è successo a noi per alcune settimane si genera questa sensazione di eroismo. Ma nel momento in cui le cose andranno meglio la natura umana ci porta a voler uscire dal momento di ansia e di angoscia che stiamo avendo tutti quanti. E senza delle protezioni, senza un piano che definisce cosa succederà tra tre settimane, non tra due anni, rischiamo di cancellare quanto fatto di buono».
Applicare dunque tutte le tecnologie disponibili per uscire da questa situazione. È quanto suggerisce anche Carlo Alberto Carnevale Maffé, docente di Strategia presso la Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi.
«In Sud Corea, Taiwan, le tecnologie hanno consentito due risultati importanti: uno il contenimento dell’epidemia, due il proseguo di una vita sociale ed economica compatibile con i vincoli». Per Maffé il contact tracing sudcoreano è particolarmente rilevante per far tornare l’Italia alla sua normale attività economica: «Come ci prepariamo a uscire progressivamente dal lockdown? È giusto studiare altri modelli». Modelli anche tecnologici per l’appunto, ma che si scontrano con la burocrazia e la privacy dei cittadini.
«Esperienze con scarsa attenzione per le libertà individuali»
«I diritti possono, in contesti di emergenza, subire limitazioni anche incisive, ma queste devono essere proporzionali alle esigenze specifiche e temporalmente limitate», afferma Antonello Soro, presidente dell’autorità garante per la protezione dei dati personali garante della privacy. «Finora ho letto numerosi generici riferimenti all’esperienza coreana e – più timidamente-cinese. Bisognerebbe conoscere proposte più definite. Mi limito a osservare che quelle esperienze sono maturate in ordinamenti con scarsa attenzione – sebbene in grado diverso – per le libertà individuali».
L’elevato numero di tamponi e l’utilizzo di big data hanno permesso a Seul di arginare la curva dei contagi. E ora più che mai in questa situazione di emergenza si è alla ricerca di modelli da imitare per contenere un’epidemia che in Italia ha portato a più di due decessi. Ma le variabili sono molte, soprattutto tra realtà epidemiologiche e Paesi così distanti.
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