Coronavirus, come open source e stampanti 3D potrebbero aiutarci a sconfiggere il virus – L’intervista
Aitasit (Associazione italiana amministratori di sistema e telemedicina), sta rilasciando nel suo sito Web alcuni progetti open source per l’autoproduzione di mascherine medicali. L’associazione che da anni si occupa di telemedicina, è coinvolta anche nella realizzazione di un sistema informatico, che sarebbe in grado di mettere in comune le informazioni provenienti dalle Tac polmonari, dei pazienti affetti da Coronavirus.
Cosa c’entrano degli strumenti di prevenzione come le mascherine, di cui oggi c’è tanta penuria, con un sistema che mette in comune i dati provenienti da diversi ospedali? Il responsabile del progetto Giuseppe Walter Antonucci, spiega a Open il filo conduttore che unisce le due iniziative, basato su un nuovo modo di vedere la produzione industriale, fatto di filosofia open source e stampanti 3D.
Risolvere la penuria di mascherine si può: con le stampanti 3D e i comuni filtri degli aspirapolvere
Eravamo rimasti al problema delle mascherine che sono sempre più introvabili, anche perché dovrebbero essere indossate solo dai malati e non è dimostrato che possano proteggere i sani. Inoltre c’è anche chi si mette a costruirsele da sé, magari pensando di poter trasgredire tutte le raccomandazioni di profilassi, come il tenere un metro di distanza dal prossimo.
Voi invece proponete delle mascherine stampabili in 3D, perché?
«Generalmente quando si parla di mascherine autoprodotte parliamo di oggetti inefficaci – conferma Antonucci – per non citare i danni da comportamento o le truffe legalizzate che si stanno vedendo in questo periodo. Noi in questo caso lavoriamo nel campo del “meno peggio”. Le mascherine sono dispositivi medicali che vanno certificati. Auto-producendoli si salta tutta la filiera della certificazione».
«Il nostro ragionamento parte comunque dal fatto che le persone continuano ad acquistare “tranci di stoffa” – non solo inefficaci – che fanno passare il messaggio in base al quale si potrebbe stare in sicurezza a meno di un metro di distanza. Inoltre è difficile ormai trovare mascherine certificate, perché continuamente in esaurimento».
Come sono le vostre, invece?
«Abbiamo pubblicizzato dei modelli già realizzati da altri. Avendo ormai una infrastruttura di ricerca consolidata, li abbiamo adattati in diversi progetti scaricabili dal nostro sito, utilizzando dei filtri di tipo Hepa, ovvero dello stesso tipo di quelli che vengono utilizzati nei condizionatori o negli aspirapolvere. In generale sono utili per rendere l’aria pulita e medicale».
Cosa sono e a cosa servono i filtri Hepa?
«Non esiste un unico standard Hepa, ma diversi livelli di filtraggio – continua Antonucci – . Abbiamo pensato di utilizzare un tipo facilmente reperibile in commercio, con migliori capacità filtranti di un pezzo di stoffa, sufficientemente piccolo da non essere scomodo e ingombrante, solitamente utilizzati negli aspirapolvere robot».
«Nel nostro modello si prende la cartuccia del filtro e la si inserisce nella mascherina stampata in 3D, ottenendo un dispositivo, che pur non essendo conforme alle specifiche industriali, sarà sempre molto meglio della mascherina fai da te, realizzata con stoffa o carta da forno. Inoltre continuiamo a migliorare il modello messo a disposizione gratuitamente nel nostro sito».
Diagnosi più accurate e banche dati interconnesse sui malati di Covid-19: così aiutiamo la ricerca e i malati
La possibilità di avere un progetto salvato su un hard disk e poterne ricavare degli strumenti mediante delle stampanti 3D, semplicemente disponendo di una connessione Internet, ha avuto molta presa in passato, tanto che si è parlato anche di “industria 4.0” e filosofia open source.
Come si applica però alle diagnosi dei pazienti?
«Stiamo mettendo a disposizione un sistema di archiviazione delle immagini Tac – spiega Antonucci – del tipo già utilizzato in tutti gli ospedali, ma per motivi di sicurezza si tratta di sistemi chiusi. Ogni azienda sanitaria è quindi una monade, questo non consente l’interoperabilità, salvo in rari casi. Così quando uno specialista vuole confrontarsi con un collega a chilometri di distanza, ci sono delle difficoltà in ambito aziendale o universitario, che rendono difficile condividere queste immagini».
C’è un problema di privacy?
«Da un lato devono essere rese anonime, dall’altro lato rimangono disponibili per i ricercatori all’interno del sistema che, a questo punto, diventa una vera e propria bio-banca digitale (così come auspicato da AGID) e in ossequio alla norma UNI ISO 20387:2019, consentendo il superamento dei normali vincoli di sicurezza delle infrastrutture di rete aziendale».
Rendere questi dati condivisibili potrebbe rappresentare una svolta, sia per velocizzare le diagnosi, migliorandole, sia per i ricercatori che dovranno produrre studi epidemiologici sulla pandemia.
«La condivisione e il tele-consulto per le Tac dei positivi al coronavirus è fondamentale in questi giorni – conferma Antonucci – Col sistema da noi proposto si potrà trovare una ricca casistica depositata nei server, auspicando una cospicua partecipazione da parte dei Centri interessati, il che aumenterebbe la significatività statistica delle ricerche effettuate».
«In un secondo momento il software che dovrà gestire il sistema, potrebbe essere arricchito mediante plug-in con appositi algoritmi, impiegando anche il supporto dell’Intelligenza artificiale; si tratta di una fase che avrebbe senso nel momento in cui tanti istituti cominciassero a partecipare alla raccolta dei dati».
«Questo ovviamente consentirebbe di velocizzare ulteriormente le diagnosi. Il lavoro della nostra Associazione al momento, consiste nel creare i presupposti per rendere questo sistema fruibile e sicuro, proteggendo la privacy dei pazienti, e garantendo lo scambio di informazioni tra gli specialisti».
Per non trovarci impreparati alla prossima pandemia
Anche mettere a disposizione i dati sui virus ha rappresentato una svolta importante, oggi se ne vede l’importanza. Lo stesso non si può dire quando degli specialisti in diversi istituti hanno bisogno di comparare referti diversi tra loro.
Il problema non riguarda solo la privacy, ma anche altri limiti, dovuti ai brevetti e a un modo piuttosto antiquato di intendere la produzione industriale, tanto che nel 2020 ci troviamo in una situazione in cui abbiamo carenza di dispositivi medici importanti, come i respiratori nelle terapie intensive.
La crisi negli ospedali italiani, che si teme anche all’estero, poteva essere evitata?
«La situazione della penuria di mascherine è il sintomo della mancanza di una vera industria o manifattura 4.0 – continua Antonucci – che doveva esplodere con l’avvento delle stampanti 3D. La ragione di questo fallimento è dovuta al fatto che non riesce a passare un nuovo concetto di produzione senza stoccaggio».
«Anche la mancanza di respiratori in Italia è inaccettabile. La produzione di questi strumenti è stata funzione di un fabbisogno minore – nessuno si aspettava un boom di richieste del genere – così oggi i produttori non riescono a soddisfare la richiesta».
«Se esistesse la vera industria 4.0, ci sarebbe da qualche parte un database di modelli tridimensionali rilasciati con licenza Creative commons, di tutti i moduli che servono per comporre la parte elettronica e quella meccanica di un respiratore. Così oggi avrebbero potuto esistere dei centri, che si occupano di riprodurre i vari pezzi, pronti per essere assemblati ed entrare in uso».
«Quel che manca quindi, non è una coscienza europea di interoperabilità dei sistemi, bensì un serio cambio di rotta nella produzione industriale, che non può più funzionare sulla catena di montaggio, né sullo stoccaggio nei magazzini».
«Nel momento in cui c’è una improvvisa impennata della domanda, o una indisponibilità al trasporto dai centri di produzione e stoccaggio, il modello industriale attuale fallisce. Questo nel 2020 è inaccettabile».
Foto di copertina: pxfuel | 3d printing, 3d, technology, tech, 3d printer, computer, indoors, equipment, communication, table.
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