Coronavirus, Ignazio Marino: «Ci vorranno mesi per rientrare dall’emergenza» – L’intervista
«Mi pesa essere lontano da amici e familiari. In questo momento però, mi sento parte di una umanità che sta affrontando una prova difficilissima. E questo unisce». Ignazio Marino, professore di Chirurgia e Senior Vice President della Jefferson University di Philadelphia, guarda dagli Stati Uniti un’Italia in lotta contro l’epidemia di Coronavirus. «Ciò che sta accadendo in Italia temo accadrà tra poche settimane anche in Nord-America», dice a Open. La sua è una delle istituzioni mediche più famose al mondo. Anche Guido Bertolaso, chiamato dalla Regione Lombardia a realizzare un ospedale all’interno della Fiera di Milano, racconta di una lunga teleconferenza con Marino e con alcuni Vice President della sua università, sul progetto e sulle modalità di realizzazione del grande centro di rianimazione.
«I medici e gli infermieri italiani sono straordinari», dice l’ex sindaco di Roma a Open. «È bello che ricevano appoggio e complimenti adesso, ma dovranno ottenere i giusti riconoscimenti economici e strumentali anche dopo l’emergenza. Spero che la classe dirigente comprenda e ricordi quanto sia importante investire in sanità e che le prossime leggi finanziarie riconoscano concretamente il valore di medici e infermieri. Anche a Philadelphia un pool di ricercatori sta facendo la sua parte, lavorando ad un “super vaccino” che potrebbe essere utile per combattere il coronavirus e non solo».
Professor Marino, quali sono stati gli errori fatti e qual è il suo giudizio scientifico e politico di quello che Giuseppe Conte ha chiamato il “modello italiano” nella gestione dell’epidemia?
«Ritengo oggettivamente che il Paese si sia trovato a fronteggiare una situazione nuova per la quale sia difficile avere un piano di intervento pronto, adeguato e che non intacchi pesantemente ambiti importanti. Credo che un Governo debba sempre fidarsi dei proprio esperti e in questo caso si sia giustamente ascoltata l’opinione di medici e scienziati. Agire di conseguenza è stato un atto di responsabilità. Tengo molto a sottolineare quanto l’Italia sia fortunata a potersi avvalere di esperti capaci come Walter Ricciardi, Guido Bertolaso e tanti altri che nei loro diversi e specifici campi sono vere eccellenze».
Ci sono stime plausibili su quanto dovrà durare la serrata italiana?
«Credo che serviranno alcuni mesi per far rientrare l’emergenza, il che richiederà certamente il protrarsi delle misure diramate a inizio marzo».
Cresce il dibattito sulla diffusione dei tamponi: solo ai sintomatici gravi e con collegamenti a rischio come in Italia o a tutti come in Corea del Sud?
«Non sono un infettivologo, né un epidemiologo. Come chirurgo sarei incline a voler conoscere le condizioni precise di ogni paziente ma questa è una decisione strategica che ha un peso e conseguenze molto delicate da più punti di vista – economico, sanitario».
Che quadro emerge del sistema sanitario italiano? Come hanno influito i tagli e le chiusure di vari presidi ospedalieri locali?
«Questa terribile pandemia ha riportato al centro della riflessione governativa l’importanza della sanità pubblica. Personalmente spero che, una volta superata l’emergenza, governi e parlamenti che si succederanno terranno presente quanto sia importante investire in sanità e in ricerca. Quando, per qualche anno, ho presieduto la Commissione Sanità del Senato della Repubblica non ho mai trovato nessuno contrario a investire di più in sanità e ricerca. Poi, però, ho sempre visto proteggere nelle varie finanziarie i finanziamenti per gli armamenti e tagliare quelli per sanità e ricerca. Anche il Governo attuale ha confermato l’impegno di spesa per caccia-bombardieri supersonici a lungo raggio. E poi mancano i letti in rianimazione, i respiratori, i Pronto Soccorso si reggono sull’impegno di specializzandi precari. Quella della sostenibilità è una questione centrale, e non solo in Italia: i soldi destinati alla sanità sono investimenti e non spese. Anche perché rispetto a tanti altri Paesi spendiamo molto poco nei settori di ricerca e sanità».
In Italia la sanità è affidata alle Regioni: questo sistema regge, alla prova della pandemia?
«Sui pro e i contro del federalismo sanitario mi sono pronunciato spesso da Senatore e Presidente di Commissioni parlamentari. Trovo ingiusto che i livelli di efficienza del Sistema Sanitario Nazionale varino di Regione in Regione. Ogni persona, ovunque sia, dovrebbe avere accesso agli stessi standard di cura. Sappiamo che non è così e che troppo spesso la responsabilità dei disservizi e della mancata trasparenza è della politica. Finora, comunque, il sistema pubblico italiano ha retto. Le prossime settimane saranno decisive. E servirà un forte impegno del Governo per garantire che questa tragica emergenza venga fronteggiata ovunque in modo adeguato».
Stato ed enti locali: cosa deve fare per esempio un comune come quello di Roma in questa situazione assolutamente inedita?
«Essere pronti a fronteggiare l’emergenza, con il preziosissimo aiuto della Protezione Civile. Adibire spazi adeguati, preparare il personale, assicurarsi che le risorse necessarie siano disponibili. Ovviamente collaborando con tutti gli interlocutori coinvolti, a partire dalla Regione. Io vivo e lavoro a 8mila km di distanza e quindi non sono in grado di fornire valutazioni accurate. Spero che queste preoccupazioni siano prioritarie nell’agenda di chi governa la Regione Lazio e la Capitale».
Ecco: il Lazio si prepara ad affrontare l’emergenza con cinque Covid Hospital. È la strategia giusta? Virginia Raggi aveva invece chiesto di riaprire per esempio il Forlanini. Lei cosa suggerirebbe per l’amministrazione di Roma in questo momento?
«Roma ha strutture e professionisti eccellenti. Penso per esempio allo Spallanzani e al Gemelli, in prima linea in questi giorni. Ritengo che adibire strutture ad hoc dove concentrare la gestione dei malati affetti da Covid-19 sia la giusta strategia. Sulla riapertura del Forlanini non voglio fare polemica. Quando lo visitai, anni fa, era già chiuso da tempo e in profondo abbandono. La vera questione è come sia stato possibile ridurre in quello stato una struttura monumentale al centro della Capitale. Certamente non è una realtà che possa essere utilizzabile in 10 giorni come il nuovo polo di rianimazione che Guido Bertolaso sta realizzando a Milano nei padiglioni dell’Expo».
Nella gestione dell’emergenza l’Italia, suo malgrado, sta diventando un modello?
«A livello internazionale ho sempre riscontrato grande stima dei medici e degli scienziati italiani. La drammatica emergenza che l’Italia sta gestendo in questi giorni sta addirittura rafforzando l’ammirazione da sempre nutrita nei nostri confronti. Sono convinto che il modello italiano possa essere ispiratore di buone pratiche da adottare e adattare a realtà anche molto diverse, come quella Usa per esempio. E per l’Italia che verrà… Molto dipenderà dalla durata delle misure adottate. Di certo nessuno di noi potrà mai dimenticare questa prova e il profondo cambiamento che sta imponendo al nostro stile di vita. Mi auguro che la politica tenga presente quanto sta avvenendo nel decidere se, in futuro, tagliare fondi alla sanità o agli armamenti».
Cosa cambia per il cittadino che si ammala di Covid-19 in un contesto di sanità come quello americano? Il modello Obama Care potrebbe ritornare?
«Un virus così aggressivo non rispetta confini geografici, né distinzioni sociali, ma affligge sistemi diversi in modi differenti. Il sistema italiano, pubblico e universale, è senza dubbio sotto stress e in grave difficoltà, a causa dei tagli subiti da anni di leggi finanziarie sempre più miopi e per la carenza di personale specializzato. Tuttavia, è oggi più che mai un vanto e un diritto da difendere. Negli Usa, dove il livello di tecnologia e la disponibilità di risorse sono spesso maggiori, si rischia di pagare un prezzo altissimo per la frammentazione del sistema e per l’alto numero di cittadini tuttora sprovvisti di assicurazione medica.
La riforma sanitaria del Presidente Obama aveva permesso a molte più persone di dotarsi di copertura assicurativa, lasciando però sguarnita la classe media. Una misura fondamentale, ma inevitabilmente insufficiente. In qualche modo paragonabile al sistema delle mutue che esisteva in Italia prima dell’istituzione, nel 1978, del Servizio Sanitario Nazionale che ha portato a piena applicazione l’articolo 32 della nostra Costituzione.
Oggi, negli Usa, molti pensano che si dovrebbero adottare le stesse misure prese in Italia per fronteggiare l’emergenza ma temo che nemmeno questa esperienza riuscirà a modificare il sistema e il suo profondo razionale filosofico basato sulla libertà di scelta di ogni cittadino sulla propria salute».
In Italia, nel mondo, non eravamo pronti ad affrontare una pandemia. Eppure potevamo aspettarcela. Perché siamo pronti a tutto, forse, ma non a questo?
«È impossibile pensare di prevenire una pandemia causata da un virus che sino a pochi mesi fa non infettava l’uomo. L’unica strategia veramente efficace è quella di limitare il più possibile il contatto umano. Il Coronavirus non può moltiplicarsi senza “l’ospite”, in questo caso l’uomo. E se non si moltiplica scompare».
Il vaccino contro il coronavirus potrebbe non essere pronto e operativo prima di 3-4 anni per tutti. È d’accordo con questa ricostruzione? Cosa fare fino ad allora?
«Nella mia università, la Thomas Jefferson University, uno dei nostri migliori scienziati, Matthias Schnell, dirige un laboratorio che sta cercando da qualche anno di realizzare prontamente un vaccino per ogni nuovo agente patogeno che dovesse comparire. In pratica, si tratta di un vettore nel quale inserire gli antigeni di un microrganismo e stimolare il nostro sistema immunitario che produrrà i necessari anticorpi per difenderci. Se, come spero, il prof. Schnell riuscirà nel suo intento nei prossimi anni potremo fronteggiare rapidamente qualunque nuova infezione virale. Fino ad allora, dobbiamo aspettare e seguire le regole e le restrizioni che limitano diffusione e contagio. Per la protezione di noi stessi e degli altri».
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