Coronavirus, è utile fornire le cifre tutti i giorni? Per il 62% dei lettori di Open sì. Ma il “come” fa discutere
Siamo ormai tutti abituati al quotidiano riepilogo dei dati del contagio da Coronavirus in Italia, l’appuntamento fisso con la conferenza stampa del capo della Protezione civile e commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Angelo Borrelli, che ogni giorno scandisce le nostra giornata con una serie di numeri relativi alla situazione nel nostro Paese. Dati sui tamponi effettuati, sui casi positivi, sulle guarigioni e sui decessi che in queste settimane hanno spesso finito per confondere le idee più che chiarirle.
Nonostante la confusione, però, la maggior parte degli italiani sembra favorevole alla divulgazione dei dati giorno per giorno, come testimoniano gli ottimi risultati di queste settimane per i programmi televisivi d’informazione e per i media online e non – e come conferma il 62% dei 9.770 lettori che hanno partecipato al sondaggio dello scorso weekend sulla pagina Facebook di Open. Dati poco chiari di cui però non possiamo fare a meno.
Il problema della comunicazione non è certo nuovo alla crisi da Coronavirus, attraversata sin dall’inizio da un filo rosso che lega la modalità di comunicazione dei dati da parte della Protezione civile tanto alla campagna #Milanononsiferma del Comune di Milano – per la quale lo stesso sindaco Beppe Sala ha fatto mea culpa, definendola a posteriori un errore -, quanto alla “fuga di notizie” relativa ai decreti che si sono affastellati in queste settimane, che ha dato il là a scene di panico collettivo, e alle discussioni sulle piattaforme e sull’orario scelti per trasmettere le conferenze stampa del Premier Giuseppe Conte.
In quella che è stata definita l’era della comunicazione totale, in cui ogni informazione si propaga a una velocità incontrollabile e il rischio che si distorca è elevato, non è possibile relegare questi problemi a mera forma. Che si tratti anche e soprattutto di sostanza lo dimostrano gli effetti a cascata delle comunicazioni gestite male – e quelli della quotidiana conferenza stampa della Protezione civile sono ormai noti e affrontati da più parti: virologi, statisti ed esperti di comunicazione.
Da chi propone di adottare la strategia del campione statistico, come i due ex presidenti dell’Istituto di Statistica italiana Giorgio Alleva e Alberto Zuliani, a chi suggerisce di non fornire i numeri quotidianamente ma piuttosto ogni cinque giorni, come il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, passando per chi sottolinea l’urgenza di avere un umanista che legga i dati, un comunicatore che sia in grado di raccontare i numeri spiegandoli e fornendo un contesto, sono ormai molti a mettere in discussione la veridicità del quadro che emerge da numeri raccolti in modo disomogeneo e impreciso.
Non si tratta di filosofia, ma di vita reale: i numeri che vengono snocciolati ogni giorno alle 18 sono gli stessi che poi finiscono nei titoli dei quotidiani, che vengono ampiamente commentati nei talk show televisivi, che creano o alleviano il senso di panico diffuso che attanaglia il Paese. Una comunicazione schizofrenica e incompleta genera reazioni altrettanto contraddittorie e i dati, che dovrebbero fare da bussola in un mare di interrogativi, finiscono per assomigliare ad un banco di nebbia.
Com’è possibile che il tasso di mortalità vari – a volte in maniera significativa – da regione a regione? Il picco è stato raggiunto o no? Quanti sono i reali casi di contagio? Come ha rilevato l’esperto di comunicazione Valerio Bassan con una citazione, non tutto quello che si può contare conta, e non tutto quello che conta si può contare. Già, perché se i numeri variano così tanto è perché ogni regione ha adottato un proprio criterio per fare i tamponi, e se il numero dei positivi è diverso dal numero complessivo dei contagiati è perché si tratta di due dati diversi – il primo si riferisce solo all’aumento delle persone positive in un dato giorno ed esclude i guariti e i morti, mentre il secondo indica il totale tra i nuovi casi positivi, i decessi e le guarigioni.
Che fare, dunque? Raccontare i dati e non semplicemente annunciarli, contestualizzare i numeri e non semplicemente leggerli – seguendo l’esempio di chi questo sforzo prova a farlo quotidianamente, anche dal basso. In assenza di una politica dei tamponi uniforme in tutto il territorio nazionale e di criteri univoci per conteggiare i morti, i dati da soli non bastano a restituire un quadro completo della realtà. E se siamo tutti d’accordo che divulgarli quotidianamente sia importante, siamo altrettanto concordi nel dire che se quei numeri stanno alla base non solo degli umori delle persone, ma anche delle valutazioni politiche che portano all’emanazione delle ordinanze e dei decreti che decidono le sorti del Paese, devono necessariamente essere comunicati in modo diverso.
Il parere degli esperti:
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