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Coronavirus, l’Europa è a corto di mascherine e ventilatori polmonari. Quali sono i limiti della produzione?

La difficoltà dei Paesi europei nel reperire dispositivi medici è dovuta anche al fatto che la loro produzione avviene fuori dall'Europa. Ma riportare le aziende "a casa" non è semplice vista l'esistenza di una filiera produttiva internazionale e di multinazionali con impianti in tutto il mondo

In piena emergenza Coronavirus l’Europa si trova a corto di dispositivi medici indispensabili per le terapie anti-Covid, come le mascherine, le tute per gli operatori sanitari e i ventilatori polmonari, senza però la possibilità di produrli internamente in quantità sufficienti. In Italia ogni giorno si alza un nuovo appello di medici, sindaci o presidenti di Regione – da De Luca in Campania a Cirio in Piemonte – che invocano aiuti dal governo e donazioni dall’estero. È evidente che ci siamo fatti trovare impreparati se anche l’esercito è chiamato a dare una mano alla principale compagnia italiana che produce respiratori polmonari per pazienti in terapia intensiva (la Siare engineering di Valsamoggia) mentre a Brescia c’è chi, come l’azienda Isinnova, prova a creare respiratori convertendo delle maschere da snorkeling. 

Ma il problema non riguarda solo l’Italia. Lo dimostrano gli egoismi nazionali – come la spedizione di 110mila mascherine destinate all’Italia requisita temporaneamente in Repubblica Ceca – come anche i tentativi affannati di aumentare la produzione domestica. In tutto il mondo i giganti dell’industria stanno riconvertendo la propria produzione per sopperire alla domanda di materiale medico: lo fa General Motors negli Stati Uniti e Volkswagen in Germania.

Per il ministro degli esteri tedesco Heiko Maas, intervistato dal Corriere della Sera, la pandemia rappresenta non solo un’opportunità per ragionare sul se e come «costruire un tetto comune» per coordinare a livello europeo la risposta sanitaria, ma anche una via «per riportare da Paesi terzi all’interno dell’Ue la produzione di beni strategici, come dispositivi medici di protezione». Parliamo sia di piccole e medie imprese (in Italia rappresentano il 95% del totale) che si nutrono di una filiera produttiva globale, sia di multinazionali con sede e impianti produttivi in tutto il mondo.

Il caso dei ventilatori polmonari 

Il mercato dei ventilatori polmonari racconta bene quali siano i limiti di produzione dei dispositivi medici in Europa. Le principali compagnie europee –  Hamilton Medical (con sede in Svizzera è la più grande al mondo), Philips (olandese), Draeger (tedesca) – sono multinazionali con sedi e produzioni in diversi Paesi. Molte di queste sono da tempo presenti all’estero e hanno una lunga storia di espansione alle spalle.

Draeger per esempio ha cominciato ad espandersi aggressivamente nel mondo a partire dalla fine degli anni ’90. Oggi ha più di 14mila dipendenti, con sedi in 190 Paesi. I suoi stabilimenti produttivi sono ai quattro angoli del pianeta, dal Cile alla Cina passando per l’India, il Sud Africa e gli Stati Uniti. Secondo un comunicato aziendale del 19 marzo – in cui viene dato conto anche di una spedizione di 100 ventilatori in Italia – la compagnia avrebbe aumentato la produzione di maschere respiratorie nei propri impianti in Svezia e in Sud Africa. Nota bene: non vengono menzionati stabilimenti in Europa (sono solo due quelli in Paesi Ue, in Svezia e Germania).

Daeger Annual Report 2019 – La mappa dei reparti amministrativi, di vendita e di produzione dell’azienda

Draeger non è l’unica azienda europea ad aver aumentato la produzione. Philips, che produce attualmente circa mille ventilatori ogni sette giorni ha detto di voler raddoppiare la produzione nelle prossime settimane. Lo stesso vale per compagnie più piccole, come Getinge (svedese). Nel rispondere a Open, la compagnia ha annunciato di voler aumentare del 60% la produzione di ventilatori nello stabilimento di Solna, in Svezia (nel 2019 ne ha prodotti 10mila). 

Certo, l’aumento della produzione non dà garanzie su quali dispositivi verranno consegnati a Paesi che attualmente ne sono a corto, come l’Italia, ed entro quando. La tempistica dipende non soltanto dalle capacità produttive della singola azienda, ma anche dalle barriere logistiche che ne condizionano le forniture, un problema a cui vanno incontro anche le aziende italiane.

Dima Italia, un’azienda del bolognese che assembla e collauda respiratori, ne è un esempio: «Non si può aumentare la produzione perché la struttura è rimasta invariata» – spiega Francesco Didonna a Open – «ma anche perché la materia prima scarseggia. Alcuni dei nostri fornitori sono stranieri e hanno tempi di 60-90 giorni». I ritardi hanno colpito sia le società fornitrici di turbine dalla vicina Francia, sia quelli da Paesi asiatici, come Taiwan. (Siare Engineering, non ha lo stesso problema, visto che i suoi componenti provengono da Emilia Romagna, Marche, Toscana e Lombardia). 

Rimpatriare le aziende produttrici è possibile? Quali sono i limiti

Per assicurare una fornitura sufficiente di dispositivi medici andrebbe quindi non soltanto potenziata la produzione in Italia, ma anche assicurata tutta la filiera produttiva. Le difficoltà sono diverse e variano a secondo del settore, come spiega Lorenzo Terranova, direttore del centro studi a Confindustria dispositivi medici. Per il settore delle mascherine è difficile «stare sul mercato» in Italia, visto anche il costo della manodopera più alto rispetto ad altri Paesi, la domanda limitata (in tempi normali) e i margini di profitto piuttosto magri. «Alcune aziende si stanno riconvertendo, ma a tre o sei mesi, quando si tornerà a vita ordinaria, il tasso di redditività sarà talmente basso per le mascherine che queste compagnie torneranno sul tessile…», è il suo pronostico. 

Per il settore dei dispositivi medici in generale, in cui il prezzo dei prodotti può essere elevato (i respiratori più sofisticati costano oltre i 22mila euro), i problemi sono anche di altro genere, secondo Terranova. Riguardano le tempistiche sia nel concludere le gare di appalto – «mediamente confrontando l’Italia con la Francia e la Germania, questi due Paesi impiegano 55 giorni per fare una gara, mentre in Italia passano 350 giorni…» – sia nei pagamenti da parte delle Regioni delle forniture pubbliche (la domanda pubblica di prodotti medici rappresenta circa il 70% di quella complessiva).

Tutti fattori che contribuiscono a rendere l’Italia – a differenza della Germania e della Francia, entrambi Paesi esportatori di dispositivi medici – un Paese d’importazione. I dati dell’anno scorso parlano di 7,4 miliardi di euro di importazioni e circa 5,1 miliardi di euro in esportazioni. 

Nel frattempo, mentre in Italia il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha firmato un’ordinanza che chiede alle dogane di segnalare i dispositivi che arrivano dall’estero per il mercato privato, aprendo di fatto alla loro possibile requisizione, qualcosa si muove anche in Europa. La Commissione europea attraverso RescEu sta organizzando la raccolta di mascherine e ventilatori con appalti Ue. A partire da inizio aprile verranno distribuite ai governi più in difficoltà tra cui ci sarà probabilmente anche quello del nostro Paese.

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