Bergamo, il dolore dei familiari delle vittime: «Se anche una sola di queste morti poteva essere evitata, chi ha sbagliato dovrà pagare»
Non circola quasi nessuna macchina sull’autostrada che collega Milano a Bergamo. Solo qualche camion. Come per il resto d’Italia le strade sono vuote. Si sente solo qualche rumore di ambulanze, e «una settimana fa sarebbe stato peggio», raccontano a Open Luca e Stefano Fusco, padre e figlio, che ci accolgono nella loro casa di Brusaporto, paesino separato dalla Val Brembana da una collina, gravemente colpito dall’emergenza Coronavirus. «Una settimana fa non avremmo potuto parlare. Il suono delle sirene sarebbe stato troppo frequente». Tutto porta alla mente il ricordo di un familiare che non ce l’ha fatta: «Abbiamo chiesto al sindaco di smettere di suonare le campane a morto, avevamo la sensazione che stessero morendo tutti».
Anche Stefano e Luca hanno dovuto seppellire un proprio caro. «Mio nonno – dice Stefano – è morto l’11 marzo in una RSA di Bergamo due giorni dopo essere stato trovato positivo al Covid19». Ma dopo la morte è iniziato il calvario per recuperare la salma: «Per due settimane non si sapeva dove fosse. Solo quando ci è stata restituita l’urna abbiamo scoperto che era stato cremato a Cuneo». Dalla morte del nonno, e dopo la sofferenza della moglie, ora vedova, costretta a un isolamento di 14 giorni dopo la scomparsa del marito, Luca e Stefano chiedono giustizia.
Con la loro pagina Facebook «Noi denunceremo» stanno raccogliendo le testimonianze di chi, come loro, vuole capire cosa sia andato storto nella gestione dell’emergenza. «Non puntiamo il dito contro nessuno. Ci teniamo ad avere giustizia anche per quei medici e infermieri che si trovano in prima linea in questa guerra», dice Stefano. In pochi giorni il gruppo ha raggiunto più di 24mila iscritti. «Se anche una sola di queste vittime si poteva evitare, chi ha sbagliato dovrà pagare», conclude Stefano.
Ormai a Bergamo non si contano più i morti. «Ho perso 21 pazienti in un mese. Negli ultimi 5 anni la media è stata di 15 all’anno». Melania Cappuccio è il direttore sanitario della Fondazione Cardinal Gusmini di Vertova, una RSA che opera nella Bergamasca. Alcuni suoi ospiti fanno parte delle tante morti sommerse che, senza un tampone, e lontane dagli ospedali, non rientrano nei conteggi del Coronavirus.
Secondo i dati ufficiali nella provincia di Bergamo i decessi sono stati 2.600, ma un’indagine dell’Eco di Bergamo ha rivelato come le morti siano quasi il doppio. Quasi 3mila persone che muoiono in casa, lontane dai parenti o nelle case di riposo. E sono proprio le RSA a essere diventate uno dei maggiori canali con cui il virus si è diffuso. Nella sola provincia di Bergamo sono 600 le persone ad essere morte in case di riposo.
La chiusura delle RSA
Dopo il primo caso all’ospedale di Alzano Lombardo il 23 febbraio scorso, «ho disposto subito la chiusura della RSA e del centro diurno», racconta a Open la dottoressa Cappuccio. Ma «dalla regione da subito c’è stato chiesto di riaprire i servizi semi residenziali e di filtrare le visite: un parente alla volta, per dieci minuti». Dal 23 febbraio, fino allo stop voluto dal governo, le RSA della Bergamasca hanno continuato a operare per almeno un’altra settimana.
Nei centri diurni anziani andavano e venivano e gli operatori sanitari con la mancanza di dispositivi di protezione adeguati sono «diventati il tallone d’Achille» delle strutture, dice Cappuccio. «Abbiamo perso il 30-40% dei nostri dipendenti, molto sono stati contagiati, o sono finiti per precauzione in isolamento». Cappuccio si sente lasciata sola: «Non sono un’epidemiologa. Ci servivano indicazioni più chiare, abbiamo fatto come potevamo aiutandoci a vicenda, contattando gli ospedali e abbiamo fornito tutte le cure, fino all’ultimo momento, a tutti gli ospiti delle nostre strutture».
La mancanza di presidi territoriali
Come denunciato dai medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII al New England journal of medicine (Nejm) l’errore è probabilmente stato quello di gestire l’epidemia negli ospedali, mentre sarebbe servito un approccio rivolto alla comunità e al territorio: «Stiamo imparando che gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19 poiché si riempiono in maniera sempre più veloce di infetti che contagiano i pazienti non infetti», scrivevano i medici nella lettera inviata lo scorso 21 marzo.
«Gli ospedali sono stati la punta dell’iceberg ma il territorio sommerso non è stato preso in considerazione», dice Cappuccio. Un’area che nelle ultime settimane è stata privata anche di centinaia di medici di base, decimati dalla malattia. «Sul territorio non avevamo una rete abbastanza solida per intercettare le persone e curarle prima che si aggravassero e dovessero essere portate in ospedale», dichiara Giorgio Gori, sindaco di Bergamo a Open.
Fuori dall’ospedale Papa Giovanni XXIII continuano i rifornimenti di ossigeno. «Prima ne consegnavamo 20mila litri alla settimana, ora siamo passati a 15mila al giorno», racconta a Open Mauro, dipendente di una ditta che fornisce agli ospedali l’ossigeno per affrontare le crisi respiratorie che stanno colpendo centinaia di pazienti. «A volte i medici chiedono a me se stanno facendo bene. Cercano una parola di consolazione», dice Mauro che entra ed esce dal pronto soccorso per fare la manutenzione dei respiratori e assicurarsi che le bombole siano collegate nel modo corretto.
Le morti in casa e nelle case di riposo: i decessi che sfuggono ai conteggi
Ma come il Papa Giovanni XXIII, sono tanti gli ospedali al collasso, dove il personale lavora incessantemente su turni di 12 ore e più per far fronte a un’emergenza che è arrivata come uno tsunami. E con i reparti sovraffollati sono tante le persone che continuano a morire a casa.
Elena ha perso un nonno. Nello stesso giorno, il 16 marzo, ha però dovuto dire addio anche al papà, entrambi morti per Coronavirus, ma senza la certezza del tampone. Tante le ore passate al telefono ad aspettare l’arrivo del 118 dopo giorni in cui i genitori mostravano febbre alta e problemi respiratori: «Dica ai suoi genitori di resistere, perché gli ospedali sono pieni». Elena Gabbiadini vive a Legnano, alle porte di Milano, ma i suoi genitori sono di Bergamo.
«Ero al telefono con mia madre quando mio padre è caduto per terra in bagno. Non si è più rialzato». Il padre è morto alle 19 del 16 marzo: «Mia madre ha passato tutta la notte con il corpo di mio padre in casa prima che arrivasse il 118 alle 8 del mattino». Anche per il padre di Elena nessun tampone, un’altra morte scappata dai registri dei deceduti della provincia di Bergamo. «Mi hanno tolto tutto, non sono ancora riuscita a piangere mio padre», dice a Open Elena che chiede alle istituzioni di andare fino in fondo: «Servono risposte».
Il dramma delle pompe funebri
Oltre al dolore dei familiari c’è quello di chi, in prima linea, si è trovato da subito vicino alla morte e al dolore. Alla casa del Commiato di Seriate le porte sono chiuse, le luci spente. Si vede solo qualche piccolo lumino. Sul campanello i contatti da chiamare in caso di emergenza. Al telefono risponde Alessandra Vavassori, titolare dell’agenzia di Pompe funebri. Lei e la sua famiglia sono state tra le prime del settore a essere contagiate: «Ci siamo ammalati tutti”», denuncia Alessandra.
Suo fratello è tra i trenta italiani trasferiti la scorsa settimana in Germania. «Non avevamo protezioni, le disposizioni non erano chiare. ci siamo ammalati in poco tempo. Ma la percezione che qualcosa non andava l’avevamo avuta già a Gennaio». Nelle settimane che precedettero il famoso di Alzano Lombardo, le sepolture per polmoniti cominciavano a essere tante: «Dai referti notavamo che molte persone avevano avuto una diagnosi di polmonite».
Anche per il nonno paterno di Nicholas la diagnosi è la stessa: polmonite. Ricoverato all’ospedale di Alzano Lombardo, viene dimesso dopo 15 giorni con la febbre alta. «È stato portato a casa e la situazione è precipitata nel giro di poche ore, due giorni dopo è morto». Anche il nonno paterno si trovava all’ospedale di Alzano Lombardo il 23 febbraio, giorno in cui è stato scoperto il primo contagio: «Quel giorno mio padre è uscito ed entrato dall’ospedale senza nessun controllo, nessun tampone», dice Nicholas che nel giro di tre giorni ha perso entrambi i nonni: «vorrei sapere perché sono stati dimessi nelle loro condizioni. E cosa sia successo in quell’ospedale di Alzano Lombardo».
L’emergenza fuori dagli ospedali
Secondo l’Istat nella provincia di Bergamo i decessi sono quadruplicati nel giro di quattro anni «passando da una media di 91 casi nel 2015-2019 a 398 nel 2020». «Tutti quelli che muoiono a casa sono morti non per il Coronavirus. A casa tamponi non ne vengono fatti. Un esempio di come sia stata gestita male la partita epidemiologica e di sanità pubblica», a denunciare la sottostima del numero dei decessi e la mala gestione dell’epidemia è Guido Marinoni, presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo.
«Era un’emergenza di sanità pubblica. Abbiamo trattato questa cosa come se l’unico problema fosse la terapia intensiva. L’ATS a Bergamo ha considerato il territorio come qualcosa di inesistente, non c’è stato il minimo interesse di quello che avveniva fuori dagli ospedali», dice Marinoni. La prima linea di questa emergenza, dopo i medici e gli infermieri, sono i medici di famiglia che, «sono stati mandati a combattere a mani nude: dimenticare il territorio vuol dire non poter gestire un’epidemia di questo tipo». Marinoni denuncia come siano 4mila i malati a casa.
Pensare al domani
Ora Bergamo, come le altre aree più colpite, pensa alla ripartenza. Dopo aver completato il suo ospedale da campo in fiera, c’è da fare i conti con una terra che nelle ultime settimane ha visto le bare di centinaia di familiari portati via da mezzi militari. Sui dati forniti dalla protezione civile il presidente dell’Ordine dei Medici di Bergamo parla di numeri non utilizzabili: «L’unica volta che ho visto la Protezione civile è quando ha mandato mascherine inutilizzabili».
«Andrebbero eseguiti milioni di test – dice Marinoni – ma non c’è nessuno che sta programmando questa operazione di rientro. Dobbiamo aumentare le misure di isolamento sociale e cominciare a lavorare urgentemente sul problema del reinserimento e lavorare sui test che la popolazione dovrà fare per tornare alla vita normale, ma gradualmente».
Con 9.171 contagi Bergamo continua a essere la zona d’Italia più colpita dal diffondersi del Coronavirus. Ma i bergamaschi sono così, si riprendono a bassa voce. Entrando nell’ospedale da campo allestito in fiera la voglia di rialzarsi è tanta, i sorrisi non mancano.
Tanti i volontari, giovani, artigiani, imprenditori, muratori, imbianchini che hanno risposto alla chiamata della città per allestire in pochi giorni una struttura che possa dare respiro alle terapie intensive degli ospedali: «Siamo felici di essere qui. Abbiamo visto il dolore di chi muore da solo. È straziante non poter stare vicino ai proprio familiari in un momento così buio» , dice Sergio mentre si assicura che i campanelli di emergenza per chiamare gli infermieri funzionino correttamente.
Tra i letti posizionati nei padiglioni della fiera si vede anche qualche maglia dell’Atalanta: «Qui c’è quasi tutta la curva Nord», dice un operaio, anche lui arrivato per contribuire all’opera. «Nessuno si è tirato indietro». E ora Bergamo guarda avanti: «È inutile continuare a piangere su quanto è successo, altrimenti non ne usciamo – conclude Marinoni -. Quel poco che si poteva salvare l’hanno salvato i medici e gli infermieri, tutto il resto è stata un’evidente disorganizzazione».
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