Coronavirus, il drammatico racconto di un medico di base milanese: «Visitiamo i malati di Covid ma niente tamponi. E se siamo infetti?»
I dati sui medici deceduti a causa del Coronavirus in Italia rimandano a un fatto inequivocabile: i più esposti, i più colpiti sono i medici di base. Sugli oltre cento camici bianchi “caduti” nel corso delle ultime settimane (la triste conta oggi segna in totale 107 decessi) circa il 40% sono infatti medici di famiglia. Gli stessi che in Lombardia per primi hanno lanciato l’allarme sull’alto numero di casi sommersi in regione.
Lo hanno potuto fare perché arrivano dove le statistiche ufficiali non sono riuscite ad arrivare: nelle case dei pazienti morti senza un tampone. E, come racconta Cristiana Belloli, 67 anni, medico di base in un ambulatorio a Milano, troppo spesso ci arrivano senza poter a loro volta fare un tampone, senza le necessarie protezioni e senza un reale coinvolgimento da parte delle istituzioni nella strategia profilattica. Nella guerra contro il Covid sono le sentinelle senza esercito.
È giusto dire che siete voi la prima linea contro il Covid?
«Siamo stati veramente in prima linea. Anche perché è il medico di base che per primo riceve il paziente, che spesso conosce la sua storia. Già a gennaio vedevo dei pazienti con tosse molto forte, con delle brutte polmoniti, forse. A febbraio non abbiamo avuto delle grosse delucidazioni nonostante fossimo molto esposti. Di pazienti Covid ne ho diversi, alcuni sono anziani, compromessi da tante patologie. Altri ancora probabilmente sono Covid, ma i tamponi noi non li possiamo fare e il 112 non esce a meno che i sintomi non siano molto gravi»
L’alta incidenza della malattia tra i medici di base si spiega anche in relazione allo stretto contatto che avete con i pazienti?
«Noi abbiamo sempre il contatto diretto con i pazienti, perché siamo abituati a visitare la gente. Quando un paziente viene e dice “Ho la tosse, ho la febbre”, i polmoni li devi sentire per forza e il fonendoscopio sarà lungo circa 20 centimetri. Insomma, impossibile rimanere a distanza di sicurezza. Inizialmente poi molti pazienti sono stati visitati senza mascherina e senza saper niente. Queste persone possono averci infettato e forse noi abbiamo infettato loro»
Lei come ha fatto a procurarsi del materiale protettivo?
«Faccio anche la dermatologa, quindi guanti e mascherine le uso sempre. Anche l’Ats [Agenzia di Tutela della Salute della città metropolitana di Milano ndr] ci ha fornito del materiale. La prima distribuzione è stata comunicata il 2 marzo e prevedeva per ogni medico un primo kit composto da 10 mascherine chirurgiche, un camice monouso, e guanti monouso per chi ne fosse sprovvisto»
Sono arrivati?
«Siamo dovuti andare a prenderceli in Corso Italia»
Ci sono state altre consegne successivamente?
«In data 18 marzo abbiamo avuto una seconda fornitura di mascherine e guanti monuso. E poi infine quella dell’alcool, 3 litri, introvabili in città»
Oggi siete ancora provvisti di dispositivi?
«Adesso dovrebbero arrivarci o dai vigili o dalla protezione civile 100 mascherine chirurgiche da dare ai pazienti fragili. Per adesso non ho ancora visto nulla. Lo abbiamo letto prima sui giornali e poi lo abbiamo saputo noi»
Si tratta di un numero sufficiente?
«Non sono sufficienti. Ho circa 1.400 pazienti di cui almeno 400 sono anziani. Si tratta di un ulteriore sovraccarico sul medico di base dato che alcuni telefonano proprio per la mascherina. Certo, 100 mascherine sono sempre meglio di nulla»
Qual è la sensazione prevalente tra lei e i suoi colleghi?
«Siamo molto stanchi, abbiamo un ambulatorio notevolmente ridotto, siamo attaccati al telefono con i pazienti perché hanno paura. Io li chiamo tre volte al giorno. È un lavoro che porta via un sacco di tempo. Il medico di base non è un burocrate, deve occuparsi dei pazienti. Se vedo che la febbre vira verso i 39 faccio chiamare il 112. Siamo stanchi ma anche sempre presenti, sempre disponibili. Anche perché c’è molta ipocondria in questo periodo, devo spesso rassicurare i pazienti. Certo se si rispettassero le ordinanze con più serietà, sarebbe meglio. Vedo la gente che va in giro e questo per me è inconcepibile. E siamo anche arrabbiati»
Perché?
«Perché dovevamo essere noi ad essere avvertiti per primi. Io potrei essere tranquillamente una portatrice di Covid, cosa ne so, non ci fanno i tamponi»
Come se lo spiega?
«Bisognerebbe chiederlo a chi decide. Ci potrebbero essere mille risposte. Questa domanda me la sono posta e posso anche darle una risposta non corretta. Se fanno i tamponi a noi, potrebbero scoprire che gran parte sono positivi. Ma se siamo positivi andiamo in quarantena, e a quel punto chi cura i pazienti? Se sono in quarantena posso lavorare col telefonino ma ci sono tanti anziani che non hanno il computer, che non hanno il cellulare con Whatsapp e che magari vengono in ambulatorio a prendere le ricette»
Crede che dopo questa emergenza verrà data maggiore importanza ai medici di base?
«Da parte dei pazienti credo di sì, molto. Devo dire che ho ricevuto un sacco di messaggi di Whatsapp di gratitudine. Avere il sostegno del paziente è di per sé una gratificazione. Poi devo dire che non amo molto la retorica sull’eroismo dei medici: prima non lo eravamo? Per quanto riguarda le istituzioni forse si renderanno conto che la figura del medico di base è stata troppo svilita, che tendono a trasformarci in burocrati, quando la nostra forza è essere a contatto con pazienti. Anche per questo potevano coinvolgerci di più in questa emergenza. Quando c’è stata la Sars eravamo stati tutti convocati, anche se bisogna dire che allora non c’era il problema del contagio. Chissà, forse cambierà”.
Foto di copertina: Online Marketing su Unsplash
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