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Gli specializzandi e neo-laureati nei reparti Covid sono stati messi in condizione di lavorare in modo efficace e sicuro?

Giovani e all'inizio della loro carriera. Inesperti - ma non per questo meno esposti - sono i nuovi medici, anche loro in “trincea” nella lotta al virus

Nei tanti reparti Covid in Italia al fianco dei medici e degli infermieri ci sono anche loro: gli specializzandi e i neolaureati, al lavoro anche a causa della crisi sanitaria portata dalla pandemia. Dei secondi si è parlato sopratutto dopo la decisione del Governo di abolire l’esame di abilitazione, permettendo quindi il loro “arruolamento” negli ospedali e nei reparti di terapia intensiva a corto di personale. Dei primi invece si è parlato poco, nonostante già in epoca di “pace” molti ospedali universitari andassero avanti grazie al loro contributo fondamentale. Figurarsi oggi.

Per Massimo Minerva, presidente di Associazione Libera Specializzandi, sono «come quei poveracci che raccolgono i pomodori». Categoria bistrattata priva di rappresentanza sindacale e a corto di opportunità – secondo i dati di fine 2019 della Federazione italiana dei medici e odontoiatri i medici inattivi in Italia sono 25mila e di questi accedono alle specialistiche solo ottomila – ma che si è prestata a questa sfida con coraggio, come i loro colleghi più tutelati.

Turni estenuanti, remunerazione inadeguata

Come raccontato da diversi specializzandi nelle regioni più colpite dal Coronavirus (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto) i turni sono lunghissimi: si lavora sei giorni su sette, dalle 7 alle 11 ore al giorno. I turni di notte, che vanno dalle 10 di sera tendenzialmente fino alle 7-8 di mattina, sono raddoppiati: se prima se ne facevano 3 ogni due settimane, in emergenza se ne fanno sei. 

«Si risparmia sugli strutturati perché con gli specializzandi è effettivamente molto conveniente», spiega Minerva. Fai fare loro 80 ore settimanali – e le fanno, perché hanno paura di essere bocciati. E poi non è l’università a pagarli i loro 1.600-1.700 euro al mese, ma lo Stato. Quindi è manodopera gratuita».

ANSA/Claudio Peri

Non molto sembra essere cambiato rispetto a prima dell’emergenza, anzi. «In pratica non c’è mai fine al nostro lavoro», racconta una specializzanda in un reparto Covid dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. «Non non ci tiriamo mai indietro, però al monte ore che facciamo non corrisponde mai un trattamento economico equiparato». Ma tra gli specializzandi c’è anche chi, come all’Ospedale Universitario di Modena, lamenta di essere poco e male utilizzato perché costretto a passare ore in reparti non-Covid, esponendosi a un inutile rischio.

Formazione? Poca 

Ai turni estenuanti si aggiunge anche il peso psicologico e morale di una situazione senza precedenti. Lo è per molti camici bianchi dalla carriera avviata, e lo è ancor più per gli specializzandi meno esperti. «Noi la preparazione l’abbiamo fatta sul campo, anche perché non avevamo un numero così alto di persone in terapia», racconta un’altra giovane specializzanda dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna. 

Lo stesso vale per una giovane neolaureata che presta servizio in un reparto Covid a Verbania, in Piemonte. «Abbiamo fatto un corso sull’uso dei dispositivi di sicurezza e basta. Il primo giorno mi hanno un po’ seguita…». Nel suo reparto il numero di strutturati si è dimezzato dall’inizio dell’epidemia, passando da quattro a due. Uno dei medici si è ritirato per motivi familiari mentre un altro infettivologo è in quarantena dopo essere risultato positivo al tampone. «Magari un piccolo corso di formazione all’inizio potrebbe aiutare – aggiunge.- Ma comunque non so chi potrebbe farcelo, perché tutti i medici sono a lavoro. Alla fine penso che nessuno si senta veramente preparato».

ANSA/Alessandro di Meo

È una frase che ripetono diversi specializzandi, forse per darsi forza o per razionalizzare la propria situazione. La ripete anche uno specializzando internista di 28 anni al policlinico di Padova, che racconta di non aver ricevuto un vero corso di formazione. «Ci hanno chiamati il giorno stesso e ci hanno spiegato la vestizione e la svestizione [per indossare i dispositivi di protezione utilizzati nei reparti Covid, ndr]», racconta, senza però rimproverare nulla ai suoi superiori: «Diciamo che all’inizio non mi sentivo preparato, ma vista l’emergenza ci siamo dovuti adattare, quindi non posso biasimare un comportamento deficitario della azienda. Dopodiché siamo internisti, dunque eravamo comunque pronti a questa situazione».

Quando sono partiti i tamponi? Il caso dell’ospedale di Sant’Orsola

Anche all’Humanitas a Milano uno specializzando in radiologia attualmente impegnato in un reparto Covid racconta di aver ricevuto soltanto un corso su come vestirsi e svestirsi prima di entrare a lavoro. Ma, come nel caso dei medici di base, cui non sempre – queste le denunce – non vengono fatti i tamponi nonostante siano spesso in prima linea, la profilassi negli ospedali solleva gli interrogativi più pesanti riguardo alla mancata tutela del personale medico. 

Gli specializzandi intervistati in tutte le regioni hanno confermato l’uso prolungato delle mascherine, a volte per settimane intere e dunque ben oltre ai limiti consigliati, a causa della loro mancanza cronica. E poi ci sono tamponi, o meglio il ritardo nei tamponi, arrivati soltanto dopo il lockdown e fatti principalmente a chi aveva sintomi. 

ANSA/Fabio Frustaci

È andata così all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, dove fino a metà marzo praticamente nessuno nel personale sanitario era stato sottoposto a controlli, racconta una specializzanda. Soltanto dopo che un’infermiera è risultata positiva, attorno al 13 marzo, si è innescato il dubbio che ci fosse un operatore asintomatico e il direttore ha deciso di far fare tamponi al personale medico e infermieristico. 

Circa quattro medici, di cui tre specializzandi e dieci infermieri sono risultati positivi. Nell’ospedale si era acceso un piccolo focolaio, gradualmente è stato spento. «Adesso se abbiamo sintomi riusciamo a fare un tampone anche in giornata. In altri reparti è un po’ più difficile…», racconta un’altra specializzanda nello stesso reparto. «Magari all’inizio si potevano fare un pochino prima, ma lo diciamo adesso con il senno di poi». 

Quale ruolo hanno giocato gli specializzandi e i neolaureati italiani in questa emergenza? Quale sarà il destino degli svantaggi a cui andavano incontro anche prima? Per il momento sembra dominare lo scetticismo. «Forse si è modificata la percezione esterna, da parte dei nostri familiari e amici. Magari veniamo visti diversamente al di là della solita routine ospedaliera», racconta uno specializzando di Padova che però aggiunge amaramente: «non mi sembra che il ruolo degli specializzandi sia stato rivalutato».

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