Coronavirus. Il racconto di Claudia, il medico «in Trincea»: «Difficile scegliere chi salvare». E l’appello: «Ricordatevi di noi anche dopo»
Claudia Gabiati ha 40 anni, è gastroenterologa, ha passato cinque anni in Pronto soccorso, altri sei in corsia, oggi lavora nella Covid Unit delll’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Affida il suo racconto alle pagine di Repubblica, dice che il Coronavirus «è velocissimo e cattivo», che le è capitato di dover «scegliere chi salvare», e ringrazia chi oggi plaude al suo lavoro, quello di tanti altri medici e sanitari, ma lancia un appello: «Ricordatevi di noi anche in futuro».
«All’inizio avevo paura – dice il medico – Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui al terremoto, a prendere una decisione al minuto». Tra cui quella più difficile: «Chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte». «Marzo è stato il mese peggiore della mia vita, lottavamo contro l’invisibile. I letti in terapia intensiva non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente 70enne, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo». Una decisione in cui ci si consultava tra colleghi, spiega la dottoressa, «ragioni, rifai i calcoli 100 volte, litighi. Ma alla fine decidi».
Il Covid, dice, «è un virus cattivo e velocissimo. In tanti anni non ho mai visto infezioni polmonari così. Chi dice che è simile a tante altre influenze non sa di cosa sta parlando. Ho visto pazienti che respiravano con qualche affanno e dopo un’ora non ci riuscivano più, completamente desaturati, in pericolo di vita». Il medico ammette che la difficoltà maggiore sta nel non sapere come combattere il virus, come curare i pazienti malati, quale farmaco funziona e quale no. «La realtà è che chi ha forza guarisce, chi non ce la fa, muore», spiega. Da due mesi, Claudia Gabiati lavora 15 ore al giorno, «durante il turno non mangi, non bevi, parli a gesti, se devi andare in bagno perdi mezz’ora a svestirti, quindi non ci vai». E quando torna a casa mantiene la distanza dal marito, dormono in letti separati, mangiano a un metro.
Ora però lei stessa vede un miglioramento: «Da una settimana il terremoto ha rallentato». Ma avverte: «La ricostruzione del mondo di prima sarà lentissima». Infine l’appello: «Ho visto dai telegiornali che ci applaudono dai palazzi. Mi ha commosso. Vorrei tenere questi applausi per il futuro e spenderli quando al Pronto soccorso ci urleranno e ci insulteranno. Oppure quando ai prossimi governi ci taglieranno reparti, ospedali, corsi di laurea. Specie qui in Lombardia dove per anni tutto è andato alla sanità privata e le briciole a quella pubblica. Oggi ci chiamate eroi, benissimo, però “segnatevala” questa cosa, poi ne riparleremo, quando ci sarà tempo».
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