Fridays For Future pensa già al futuro con una lettera all’Italia. E gli scienziati la sottoscrivono – L’intervista
A una settimana dal global #DigitalStrike del 24 aprile, lo sciopero globale per il clima lanciato dall’attivista Greta Thunberg che a causa del Coronavirus si sposta dalla piazza alla rete, Fridays For Future Italia pubblica una lettera destinata all’Italia – e, nemmeno troppo implicitamente, a chi la governa. Il messaggio è chiaro: l’emergenza sanitaria è solo una delle due crisi in corso e l’unico modo per risolverle entrambe è ripartire da una radicale inversione di rotta da un punto di vista economico e produttivo.
Mentre la questione ambientale è totalmente assente dal dibattito sulla Fase 2, c’è chi chiede di accantonare il Green New Deal per dedicare più risorse economiche a tamponare la crisi, o di abbassare le regole poste a tutela dell’ambiente. La lettera di Fridays For Future, personalmente sottoscritta da decine di scienziati ed esperti, si inserisce in questo scenario per proporre una soluzione unica per la crisi sanitaria e quella ecologica.
Ma come si concilia la conversione in chiave ecologica del sistema economico e produttivo con l’urgenza di garantire un sostentamento a chi non riesce ad arrivare a fine mese perché ha perso il lavoro? E l’Italia, il paese che ha espresso più firmatari – 200 su 500 – della petizione di accademici che nega il cambiamento climatico, è pronta per fare da capofila in Europa per questo cambiamento epocale? Ne abbiamo parlato con uno dei firmatari della lettera dei Fraidays For Future, il fisico climatologo del Cnr e autore di numerose pubblicazioni specialistiche Antonello Pasini.
Tra le proposte dei FFF ci sono l’efficientamento energetico, la tutela del territorio, la riconversione delle industrie, tutte misure che creerebbero posti di lavoro ma che è difficile far partire immediatamente. Come si conciliano le tempistiche, tendenzialmente lunghe, della riconversione ecologica auspicata dagli attivisti di FFF con quelle dell’emergenza sanitaria?
«Penso che per rispondere si debba partire dalla constatazione che sia il Coronavirus sia il cambiamento climatico hanno un’inerzia: il primo di quindici giorni, dovuto al tempo di incubazione del virus, il secondo di dieci, venti o trent’anni dovuto al fatto che l’anidride carbonica immessa nel sistema rimane in circolo per decenni. Gli effetti del cambiamento climatico a cui assistiamo oggi sono il risultato dei decenni scorsi, e il risultato di quello che faremo oggi si vedrà tra vent’anni. La differenza tra le due emergenze, però, è che i guai causati dal cambiamento climatico non saranno temporanei, ma definitivi. Ecco perché ora dobbiamo assolutamente evitare l’effetto “rimbalzo”, lo stesso a cui abbiamo assistito dopo la crisi del 2008. Con il prezzo del petrolio ai minimi storici, ripartire con un consumo ancora più intenso è una forte tentazione, ma non si può fare».
La scienza formula delle tesi, ma poi spetta alla politica prendere decisioni. Qual è il giusto bilanciamento tra scienza e politica e chi è, in Italia, che vi dà l’appoggio politico di cui avete bisogno?
«A livello internazionale è da trent’anni che gli scienziati del clima creano rapporti climatici molto dettagliati, che poi vengono divulgati ai politici attraverso la fase chiamata summary for policy makers. Va detto che Greta Thunberg e Fridays For Future hanno fatto in un anno quanto noi non siamo riusciti a fare in tre decenni. È un problema di comunicazione: se una cosa te la dice una persona che potrebbe essere tuo figlio ha un impatto diverso di quando la dice un grande esperto, che passa per pedante o saccente. È importante, però, agire su più livelli: bisogna cambiare il proprio stile di vita individuale, ma non si può prescindere dalla politica, nazionale e internazionale. Qui in Italia c’è poco da fare: noi diamo il nostro contributo a fornire soluzioni scientificamente fondate, ma i nostri politici devono smettere di ragionare su un piano temporale di due o tre anni e cominciare a spostarsi su quello dei venti o trent’anni. A livello europeo invece siamo sulla buona strada: con il Green New Deal è la prima volta in cui quasi un continente intero si mette d’accordo per dar retta alla scienza».
L’Italia è anche il paese che ha espresso più firmatari della petizione che nega il cambiamento climatico e in cui molti ora chiedono deregolamentazioni sul fronte ambientale per via della crisi economica. Siamo davvero pronti a fare da guida al resto dell’Europa nella riconversione ecologica?
«L’Italia ha dei vantaggi oggettivi, come un’industria non così esigente dal punto di vista energetico e delle risorse quasi illimitate, come il sole. Se la Norvegia, dove in inverno il sole tramonta alle 15, cerca di risolvere i problemi energetici con l’energia solare, figuratevi cosa possiamo fare noi. Il vero problema è che la nostra classe politica è troppo attenta al breve termine e parla più alla pancia che alla testa delle persone, cerca nemici e non soluzioni. Ma l’ambiente è un bene comune e il problema climatico ha bisogno di una soluzione condivisa non solo tra diversi paesi, ma anche tra diversi schieramenti, servirebbe un patto inter-partitico. Per far sì che la nostra politica lo capisca servono delle spinte dal basso, ecco perché i giovani e gli scienziati devono farsi sentire».
Il problema però è la percezione delle due minacce: una è istintiva perché ci siamo già passati, l’altra per il momento è teorica. Come si cambia la percezione del pericolo?
«Con una maggiore cultura scientifica. All’inizio molti prendevano sottogamba anche il Covid e chi si preoccupava passava per esagerato, ma la scienza ha detto subito che la crescita era esponenziale. Stessa cosa per la crisi ecologica: se fino a qualche anno fa molti potevano pensare che il problema del cambiamento climatico riguardasse solo le generazioni future, ora le conseguenze le vediamo chiaramente – dalla siccità estiva, ai rari ma sempre più distruttivi fenomeni piovosi. Insomma, si vedono gli effetti e la scienza parla chiaro: bisogna farci i conti, proprio come con il Coronavirus».
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