Coronavirus, nuova denuncia dalla casa di riposo degli artisti di Milano: «Ero malato e non mi hanno isolato». Ma la direzione nega
«Non è un’isola felice come vogliono far credere». Nella casa di riposo degli artisti “Giuseppe Verdi” di Milano un ospite, che ancora vive nell’albergo e ha preferito restare anonimo per paura di ritorsioni, racconta di essersi ammalato a fine febbraio e che, nonostante le continue richieste di essere messo in isolamento, la sua domanda è stata accolta con settimane di ritardo, compromettendo la salute di tutti gli altri membri della casa. Una testimonianza che arriva a pochi giorni da quella di Sofia Marzorati, nipote del signor Sergio – ex musicista – morto proprio all’interno della Verdi con un quadro clinico che, secondo la ragazza, faceva pensare a un «caso da Coronavirus in piena regola». Negli scorsi giorni la casa di cura è stata raccontata sui giornali e nei telegiornali come esempio virtuoso per il tasso minimo di contrazione del virus, cosa resa possibile da efficienti misure restrittive, adottate in maniera tempestiva.
L’uomo, ospite della struttura da un paio di anni, due mesi fa ha cominciato ad avere la febbre. «Ma non una febbriciattola da nulla, raggiungevo anche i 39 e mezzo delle volte, e sono andato avanti così per settimane. Poi sono arrivati i problemi respiratori – che hanno detto essere una semplice bronchite. E ancora adesso, dopo un mese e mezzo, misuro la temperatura perché non si sa mai. Visto quello che stava capitando là fuori, ho ritenuto giusto chiedere di essere messo in una stanza, da solo, soprattutto durante l’ora di pranzo. Invece niente. Ho continuato a mangiare per settimane, con la febbre che non ne voleva sapere di scendere, con gli altri compagni dell’Albergo a 20 centimetri di distanza l’uno dall’altro. Gli operatori ancora senza mascherine, né guanti, continuavano a lavorare come niente fosse. Ho dovuto far certificare la mia malattia al medico di base che ha mandato comunicazione alla struttura di mettermi in isolamento. Dalla disperazione ho chiamato la Polizia tre volte per denunciare la cosa».
Ed era già metà marzo. In quel periodo, come raccontato dalla direzione della casa, tutti coloro che si trovavano all’interno dell’Rsa sono stati isolati nelle loro stanza senza possibilità alcuna di avere contatti con l’esterno per evitare la diffusione di contagi, dopo che un anziano era stato ricoverato in ospedale. «Per fortuna abbiamo avuto un decesso – classificato come ufficiale – per Coronavirus. E quelli non ufficiali? E i casi sospetti? E perché non fanno i tamponi?», chiede l’uomo al telefono mentre un’operatrice gli serve il pranzo, nella sua camera, «questa volta con mascherina e guanti».
La direzione: regole rispettate
Dalla direzione della casa di cura negano quanto raccontato finora dall’uomo, precisando che da metà marzo, come da protocollo, sono state prese tutte le misure del caso per evitare il dilagare dell’epidemia, cosa che infatti ha fatto registrato un bassissimo numero di contagi e decessi. Precisano, inoltre, dicendo che «per quanto ci risulta, vi è stato un solo caso di decesso causato da Covid 19 accertato, relativo ad una donna anziana, avvenuto lo scorso 18 marzo, peraltro all’interno di una struttura ospedaliera presso la quale la stessa era stata ricoverata», come spiegano gli avvocati Paolo Siniscalchi e Laura Pellegrini a nome della residenza. La struttura si trova a un chilometro dal Pio Albergo Trivulzio, l’Rsa in cui 150 anziani hanno perso la vita e sulla quale la Procura ha aperto un fascicolo, dopo che, l’11 aprile, il direttore generale Giuseppe Calicchio è finito nel registro degli indagati per i reati di omicidio colposo ed epidemia colposa.
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