Le fortune del Bluetooth. Come una tecnologia del 1994 sarà fondamentale in questa epidemia di Coronavirus
Il re di Danimarca e Norvegia Harald Blåtand Gormsson visse nelle terre a Nord Europa tra il 935 e il 985 dopo la nascita di Cristo. La stampa a caratteri mobili sarebbe arrivata 470 anni dopo la sua morte, la lampadina 895 anni dopo e il primo iPhone sarebbe stato presentato 1022 anni dopo. Il re di Danimarca e Norvegia Harlad Blåtand Gormsson non avrebbe avuto nulla a che fare con la storia della tecnologia, se non fosse che nel 1997 un ingegnere della Ericsson decise di dare il suo nome a una delle tecnologie che ora sembrano cruciali per affrontare l’epidemia di Covid-19: il Bluetooth.
Alle origini del nome, e del simbolo
“Blåtand” è un termine scandinavo che vuol dire “Dente Azzurro”. Non è certo perché Harlad Gormsoon fosse soprannominato così: fra le tante ipotesi c’è anche quella che si colorasse i denti con una tintura blu prima delle battaglie. Quello che è un po’ più certo è il motivo per cui questo nome venne dato alla tecnologia che conosciamo. Durante il suo regno Harlad Gormsoon, italianizzato come Aroldo I, era riuscito a unire diverse tribù in lotta tra loro nella terra che ora chiamiamo Danimarca. Allo stesso modo la nuova tecnologia di Ericsson, sviluppata già nel 1994 ma battezzata solo tre anni dopo, doveva servire a unire diversi dispositivi con una connessione a corto raggio. La genesi del nome Bluetooth si legge anche nel simbolo utilizzato per identificarlo. Quella che sembra solo una B è l’unione di due caratteri nordici: Hagall e Berkanan. Queste due lettere corrispondono all’incirca alla H e alla B dell’alfabeto latino e si riferiscono al nome del re scandinavo: Harlad Blåtand.
La cavalcata del Bluetooth
Cuffie, casse, automobili e smartwatch: negli ultimi anni le connessioni Bluetooth sono diventate sempre più diffuse. Quando questa tecnologia è nata doveva permettere ai primi telefoni di scambiarsi dati senza ricorrere ai sistemi costosi, come Sms e Mms, o ai lenti e poco funzionali tentativi di connessione alla rete internet. Nel 2016 Apple ha presentato le AirPods, le prime cuffie bluetooth prodotte dall’azienda di Cupertino. Una celebrazione di uno standard diventato sempre più importante, tanto che sempre nel 2016 Apple ha lanciato anche il primo iPhone senza la presa jack da 3,5 mm. Le cuffie o erano Bluetooth o non esistevano affatto. La trasmissione dei dati attraverso questa connessione avviene con la banda radio a onde corte (UHF), su frequenze che variano dai 2,4 Ghz ai 2.485 Ghz. La distanza massima che può garantire la connessione tra due dispositivi varia a seconda della Classe in cui rientra la connessione. I dispositivi di Classe 1 possono connettersi a una distanza di 100 metri in linea d’aria, quelli di Classe 2 arrivano a 10 metri mentre quelli di Classe 3 si fermano a un metro.
La privacy e il contact tracing
Ormai è chiaro: l’app Immuni si baserà proprio sulla tecnologia Bluetooth per tracciare i nostri contatti. Dopo aver attivato la app sarà quindi possibile costruire una sorta di registro dei contatti che permetterà, in caso che si risulti positivi al virus, di ricostruire la nostra rete di relazioni per avvisare chi è entrato in contatto con noi. La maggior parte degli smartphone dispone di una connessione Bluetooth di Classe 2. Quindi il tracciamento avverrà solo per chi starà con noi a meno di 10 metri di distanza. Per un’operazione di questo tipo il Bluetooth è più utile del Gps per due motivi: consuma meno la batteria dello smartphone ed è più accurato. Il Gps infatti non riconosce le differenze di altezza quindi due persone possono risultare vicini anche se si trovano nello stesso edificio ma a cinque piani di distanza.
Stando alle informazioni diffuse su Immuni, con questa tecnologia anche i dati personali dovrebbero essere protetti. I contatti infatti vengono registrati tramite chiavi di lettere e numeri che non possono essere decifrate da utenti esterni. Nel momento in cui una persone risulta positiva le viene chiesto di trasmettere le proprie informazioni a un server gestito dal Servizio sanitario nazionale. È da qui che vengono conservati tutti i dati, sempre in forma anonima. E se un paziente risulta positivo arriverà quindi sull’app di chi è entrato in contatto con lui un avviso in cui viene invitato a rivolgersi a un medico per fare un test.
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