Genova ai piedi del nuovo ponte, parlano i sopravvissuti: «Ma per noi oggi non è un giorno di festa» – I video
Alle spalle il quartiere commerciale della Val Polcevera, davanti quel che resta del ponte Morandi. Per quattro giorni e quattro notti, affacciata ai bordi della statale che costeggia il torrente, Paola è rimasta ferma a guardare le macerie. Ha aspettato che i soccorsi le dessero notizie di suo figlio, mentre volontari e vigili andavano avanti e indietro tra i massi e le lamiere. Le notizie alla fine sono arrivate. Gliele hanno portate i soccorritori, insieme al suo corpo avvolto in due sacchi neri.
Oggi, 28 aprile, è stato il giorno dell’inaugurazione del nuovo ponte, quello che l’architetto Renzo Piano ha regalato a Genova per aiutarla a ricominciare dopo la tragedia che si è portata via 43 vite. Un ponte lineare e sobrio, così come la cerimonia istituzionale che si è svolta vicino all’ultima campata salita in quota. C’era il sindaco della città, Marco Bucci, c’era il presidente della Regione Giovanni Toti, e c’era il premier Giuseppe Conte. Tutti con elmetto e gilet gialli. Ma oltre ai giornalisti concentrati tra via Porro e via Capello, i carrugi periferici sulla destra di viale Fillak, nella zona non c’era quasi nessuno.
«Da oggi c’è un altro ponte, è vero», spiega Massimiliano del Comitato Zona Arancione, «ma io Paola l’ho sentita stamattina, so come sta. Cosa volete che le importi di un viadotto nuovo?». In qualche modo il figlio di Paola, Mirko, è anche una vittima sul lavoro: il 14 agosto del 2018 stava finendo le ultime ore di turno nell’isola ecologica della Valpolcevera gestita dall’azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti, l’Amiu, nell’area che di lì a poco sarebbe stata sommersa dalle macerie. Secondo Massimiliano, lo stato di fatiscenza in cui versava il ponte Morandi era talmente evidente che l’Amiu aveva steso delle reti protettive sopra al cantiere, per evitare che gli operai venissero colpiti dai pezzi di cemento che cadevano regolarmente. Reti che, evidentemente, erano tutt’altro che sufficienti.
Ponte vecchio e ponte nuovo
Ora nell’area del crollo è rimasto solo il letto del fiume e un ponticello coperto di mazzi di fiori. Su una delle grate basse sventola una bandiera albanese in ricordo di una delle vittime. Loredana sta guardando da lì il fissaggio dell’ultimo nastro d’acciaio che unirà la valle di ponente e quella di levante, e che ora scavalca il Polcevera tagliando di netto il cielo grigio. C’è un vento furibondo e piove di traverso da tutta la mattina. Si tiene stretta alla sua borsa. «Una tipica giornata genovese», dice. Vede il nuovo ponte ma non può far altro che pensare a quello vecchio.
«Non penso che lo attraverserò mai», dice. «Ero lì sopra quel giorno, quando è successo. Io e mio marito stavamo andando all’Ikea, che è in zona Cornigliano, dall’altra parte del Polcevera. Siamo passati, abbiamo parcheggiato la macchina davanti al negozio. Poi abbiamo sentito che il ponte era venuto giù». Quella vallata che le si apre davanti le ricorda anche il lavoro straordinario di suo figlio Valerio, uno studente di 27 anni che ad agosto del 2018 ne aveva 25 e lavorava come volontario alla Croce Azzurra di Borzoli. E che ha aiutato i suoi colleghi a tirar fuori i corpi dalle macerie.
«Ogni volta che passo per via Fillak alzo la testa e guardo il ponte», dice lui. «Il ponte è nuovo ma io vedo quello vecchio». Alla cerimonia è passato solo per qualche ora, se ne è andato prima che le navi suonassero per dare inizio all’inaugurazione istituzionale. «Ricordo bene quel giorno», dice. Era il mio giorno libero, ero in centro con la mia ragazza per fare alcune compere. Appena ho letto la notizia mi sono precipitato in metro e sono andato sul luogo del crollo». Le immagini di quelle ragazze che ha tirato fuori, e che non ce l’hanno fatta, sono ancora nitide nella sua testa.
E’ uno studente di giurisprudenza, le parole si può dire che sono il suo forte. Ma questa volta, giura, non riesce a farle uscire. Casa sua non è troppo distante dal punto in cui è crollato il ponte, più o meno nei pressi del quartiere Rivarolo. «Io me lo ricordo così il ponte: a terra», dice. «Mi ricordo i corpi, mi ricordo le ambulanze piene che non ce la facevano a trasportare tutti. E mi ricordo le macchine schiacciate, irriconoscibili. Ce n’era una in particolare che mi è rimasta in mente perché, sapete, io sono un esperto di automobili, posso riconoscere un modello da decine di metri di distanza. Ma quella macchina..quella era così distrutta, così piegata..Non ho saputo capirlo nemmeno da pochi centimetri».
Città sospesa
Nonostante la pandemia da Coronavirus e lo spirito del Ponte Morandi, una parte di Genova non sembra volerne sapere di nascondersi. Nella parte alta di viale Fillak, quella che incrocia la fine di via Certosa, c’è un furore denso che corre tra le piccole alimentari, le edicole, i forni e le macellerie. Su quella strada ci lavora anche Giusy, proprietaria di un locale notturno della zona. Da Autostrade ha ricevuto aiuti economici sufficienti per rimanere a galla e per non perdere tutto quello che si era costruita nel corso degli anni. Parla di circa 10mila euro arrivati in 3 trance. Soldi che, secondo i racconti di Massimiliano del comitato Zona Arancione, Autostrade si è premurata di distribuire per correre ai ripari. Prima «regalando letteralmente poche migliaia di euro a chi le reclamava» e poi organizzandosi con procedure di risarcimento.
Ma per quanto i genovesi siano gente indurita tra mare e montagna, l’impressione è che si viva in un tempo sospeso. «Sì, certo, il ponte, un bel traguardo», dice Giusy. «Ma qui il problema sono le persone. Ce ne sono di due tipi: o così impaurite da non uscire di casa, o incattivite con tutto e tutti. Difficile pensare che ci sia qualche genovese a festeggiare ai piedi del ponte oggi». Anche Massimiliano è dell’idea che la realizzazione del ponte non rappresenti un vero e proprio punto di svolta. Oltre ad essere proprietario di un centro estetico, si è occupato in questo anno e mezzo di riunire centinaia di commercianti e liberi professionisti per portare avanti le loro cause.
Tra questi commercianti c’è Alessandro, proprietario di un autolavaggio, che da quando il crollo del ponte ha spaccato in due la città ha azzerato le sue entrate. Da migliaia di euro di fatturato mensile è passato, letteralmente, a guadagnarne zero. Da Autostrade non ha avuto nessun sostegno economico. «Perchè? Bella domanda», racconta. «Probabilmente perché sono qualche metro fuori dalla zona rossa».
E poi c’è Domenico, maestro di musica in una scuola pubblica e insegnate di pianoforte a partita iva. Per settimane ha provato a raggiungere l’altra parte della città per andare a scuola, ma quel tragitto che prima impiegava pochi minuti ha iniziato a richiedere ore. «Per sei mesi ho dormito in una brandina in uno degli uffici dove facevo lezioni di musica», dice. «Noi andiamo avanti, ma non è facile rinascere».
Intanto, a pochi metri dalla cerimonia, in via Certosa una signora è uscita a portare a spasso il cane. Dice che quel giorno lei non era in casa, che c’erano solo i suoi figli. Dice che dalla sua finestra si poteva vedere tutto il ponte e che dalla stessa finestra s’è visto anche venir giù. Quello che non s’era mai visto prima, dice, erano gli operai. «Anni di ponte e di macchine, ma di cantieri non se ne sono mai visti». Mentre parla porta la sciarpa davanti alla bocca e tiene lo sguardo fisso sui muri delle case. Non ha il coraggio di guardare su.
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