Germania, si chiude senza condanne il processo sulla strage della Loveparade: morì anche l’italiana Giulia Minola. Le famiglie: «Faremo ricorso a Strasburgo»
Dieci anni fa Giulia Minola stava andando ad ascoltare un concerto, la LoveParade a Duisburg, insieme a migliaia di ragazzi e ragazze della sua età. Come lei Clara, Maria, Christian. Da quel concerto non torneranno mai più: sono morti, schiacciati in un tunnel da una calca immane e presa dal panico. 21 morti e 650 feriti (da Italia, Spagna, Australia, Bosnia, Cina e Olanda) per cui – almeno in Germania – non ci sarà alcuna giustizia.
Il tribunale di Duisburg, in Germania, ha infatti archiviato il processo sul massacro del Loveparade del 2010, che finì con 21 morti, fra cui l’italiana Giulia Minola. Forte la delusione dei parenti delle vittime, che si hanno protestato contro l’archiviazione del processo come parti civili.
Ricorso alla giustizia europea
Doveva essere una “parata dell’amore”, ma era finita in tragedia. Il bilancio tragico della diciannovesima edizione del Loveparade – il festival di musica dance nato a Berlino l’anno della caduta del muro – andata in scena a Duisburg, in Germania, nel luglio del 2010 – aveva decretato la fine dell’evento e l’inizio di un processo che però non ha portato ad alcuna condanna.
Nadia Zanacchi è la mamma di Giulia. Da quel 24 luglio 2010 non ha mai smesso di lottare. E non smetterà di certo ora, dieci anni e un’archiviazione dopo. Insieme ad altri genitori, nei giorni scorsi ha scritto una lettera di accusa all’intero sistema: il processo sembra una farsa, dicono queste famiglie senza giustizia. «E l’archiviazione ne è la degna conclusione», dice amara. Non esclude, se ci saranno gli estremi per farlo, di ricorrere alla giustizia europea.
Non intendono fermarsi neanche Paco Zapater Esteban e Nùria Caminal Janot, genitori di Clara, 22 anni. Un’altra delle vittime oggi senza giustizia. «Sono stati violati i nostri diritti e pensiamo che non abbiamo avuto un giudizio equo, secondo la Convenzione europea dei diritti Umani: un giudizio che non viene terminato non può mai essere equo, e vogliamo fare appello al Tribunale di Strasburgo».
Il processo
Ai suoi esordi il processo vedeva imputate dieci persone, tra lavoratori del Comune di Duisburg e la società che ha organizzato l’evento, la Lovepavent. Per sei dipendenti del Comune per un altro dipendente della Loveparade il processo era stato archiviato oltre un anno fa. Adesso invece sono stati scagionati anche gli ultimi tre imputati, fra i responsabili del festival – 40, 60 e 67 anni – accusati di omicidio e lesioni colpose. Ai tre venivano contestati gravi errori nella programmazione del Loveparade.
Tra le testimonianze che si sono susseguite durante il processo, quella di Irina Di Vincenzo, la ragazza oggi trentenne di origini torinesi che era quel giorno con l’amica bresciana 21enne, Giulia. «Ci siamo ritrovate sommerse, mi ha chiesto di aiutarla», raccontava Irina due anni fa. Una dinamica, quella della strage, agghiacciante. Le due ragazze erano già in viaggio, e alla Loveparade, grande festa popolare nata a Berlino nel 1989, ci erano arrivate quasi per gioco e per caso, comprando un biglietto aereo su internet.
Il processo era stato sospeso a marzo per l’emergenza Coronavirus ed era cominciato l’8 dicembre 2017.
La lotta per la giustizia
Negli anni la lotta delle famiglie e dei superstiti è andata avanti, ma con sempre più fatica. «Man mano in tanti hanno smesso di lottare. È comprensibile», racconta Nadia. Ha una voce calma, triste, e una grande dignità immutata in tutti questi anni.
Insieme a Gabi Müller in Germania e agli altri genitori, aveva lanciato una campagna transnazionale – in italiano, spagnolo e tedesco – di mobilitazione per chiedere giustizia. «Come mamma mi sono chiesta tante volte cosa avrei potuto fare per proteggere mia figlia. Non so darmi una risposta. Ma altri sicuramente avevano questo compito», spiegava Nadia. «Chi ha proposto e organizzato questo evento. Chi ha scelto il luogo e ha permesso che si svolgesse lì. Chi ha controllato che tutto funzionasse. Chi ha assicurato sicurezza. Ho visto il luogo. Uno scalo merci dismesso, fra edifici fatiscenti ed erbacce con le uscite di sicurezza chiuse, e per arrivarci un tunnel senza vie di fuga, senza la minima uscita di sicurezza, un luogo buio e stretto, soffocante rigurgitante di gente che non poteva muoversi, sicuramente presa dal panico».
E ancora: «Mi sono chiesta se si può organizzare un evento di risonanza mondiale e che negli anni precedenti aveva richiamato un milione e mezzo di persone. Sicuramente un evento intorno al quale sono girati molti interessi, economici, politici, commerciali. Un evento, dicono, studiato per tre anni. Perché nessuno ha sentito la vergogna profonda per essere stato causa di un fatto così terribile?».
La giustizia tedesca
Agli inizi di aprile, il tribunale di Duisburg ha chiesto l’archiviazione anche per gli ultimi tre imputati, motivando la decisione, fra l’altro, con la circostanza che a causa delle restrizioni per il Covid-19, non sarebbe stato possibile chiudere il processo entro i termini della prescrizione che sarebbe scattata a fine luglio. «Così finisce questo processo dopo due anni e mezzo», commenta Daniel Sellerio, avvocato della famiglia di Giulia. «L’archiviazione non è una sorpresa».
Ma com’è possibile che una strage di 21 persone resti senza alcun responsabile? Le motivazioni oggi sono state comunicate dopo una camera di consiglio di tre ore: «Dalla strage sono passati dieci anni», riferisce il legale. «Inoltre è un avvenimento multicausale, non si può dire che c’è un solo motivo e un solo colpevole per le vittime. Ci sono vari errori e molti responsabili, questa la ratio».
Infine per il giudice sarebbe necessario vedere le colpe degli ultimi tre imputati. E in Germania, se c’è una procedura molto lunga (dalle indagini al processo), «le pene si riducono», dice Sellerio. E poi c’è il fatto che a luglio una parte dei capi di imputazione sarebbe andata in prescrizione. «Il giudice dice che non ha influito, ma potrebbe essere stato un elemento che ha avuto un peso».
Era comunque evidente che questo processo non sarebbe mai finito con una sentenza, dice il legale, per via di come funziona il procedimento penale tedesco. «In questi 184 giorni di udienza abbiamo sentito moltissimi testimoni, viste le immagini, ascoltato tante opinioni, viste le valutazioni dei periti. Non voglio dire che sappiamo cosa sia successo, ma come sia potuta avvenire la strage, più o meno, si è capito». Il tribunale deve risalire alle colpe individuali, spiega l’avvocato. Lo stesso procedimento penale, in casi grossi come questo, con molte testimonianze e una miriade di elementi da far entrare nel processo, diventa molto lungo.
«Indignati con la giustizia tedesca»
«Siamo indignati con la giustizia tedesca. Sin dall’inizio ci siamo resi conto che la indagine non stava pensata per chiarire la verità da quello che è successo, e neanche per cercare i politici, uomini d’affari o poliziotti responsabili della disgrazia». Rispondono in italiano, aiutati dal figlio che lo parla molto bene, gli spagnoli Paco Zapater Esteban e Nùria Caminal Janot.
«All’inizio del processo avevamo qualche speranza, ma col tempo abbiamo visto chiaramente quale era intenzione del tribunale: finire il giudizio e mandare a casa loro gli imputati. Dopo due anni e mezzo si sono svolte soltanto 184 udienze, una e mezza alla settimana. Ora hanno cercato un motivo per finire. Ci chiediamo: anche tutti gli altri giudizi hanno avuto lo stesso destino a causa della pandemia? Oppure il caso della Love Parade sarà l’unico? Vergogna!».
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