Hollywood: la terra dei sogni, ma non per tutti
«E’ facile vedere la vita come una cosa puramente meccanica, come se non avesse senso. Però da piccolo quando guardai nello schermo enorme capii come doveva essere, cosa significa sentirsi vivi, era come se ci fosse qualcosa da qualche parte là fuori, che mi aspettava. Ecco cosa significa essere vivi. So che ogni volta che esco dal cinema mi sento meglio di quando sono entrato», dice uno dei protagonisti della nuova mini serie di Netflix. Hollywood ama parlare di sé stessa, sezionare gli umori, i sogni e le illusioni di chi popola gli Studios, La La Land ne è un chiaro esempio ma anche Birdman.
La dimensione autoreferenziale aumenta se parliamo della Hollywood del secondo dopoguerra: quella fabbrica di sogni dorati che hanno fatto grande l’America nel mondo. Hollywood, la mini serie di Netflix in 7 puntate, racconta proprio il mondo dell’industria cinematografica americana insieme ai sacrifici e i compromessi che gli aspiranti attori devono compiere per diventare una star.
La serie è stata creata da Ryan Murphy (artefice anche di Pose e Glee) e la definisce faction: metà fatti e metà fiction, personaggi e storie vere s’intrecciano a personaggi e storie inventate. Il contesto storico è quello della fine del secondo dopoguerra, il boom economico è in piena ascesa così come l’industria cinematografica americana che sta esportando l’american dream in tutto il mondo. Quella raccontata è una fase di profondo cambiamento e di lotta alle convenzioni sociali che, insieme al retaggio razziale, sono ancora molto radicate.
La storia parte da Jack Castello, giovane veterano che si sposta a Los Angeles con moglie incinta al seguito e il sogno di diventare una star del cinema. Per sbarcare il lunario decide di lavorare presso una stazione di servizio, in cui però i clienti possono accedere a “servizi extra” non contemplati dal codice di “buon costume” californiano. Ciò è possibile pronunciando una parola segreta dal sapore freudiano, dreamland, che si rivela davvero una chiave di accesso privilegiato per Jack nel mondo del cinema.
Un cast che funziona benissimo in cui troviamo un inedito Jim Parsons (aka Sheldon Cooper) nel cattivissimo agente Henry Willson e la bravissima Patti LuPone, moglie dell’uomo più potente di Los Angeles si troverà a fare grandi scelte.
La serie di Netflix riesce a costruire una narrazione a due fili: da un lato, la voglia di arrivare, di raggiungere i sogni tanto agognati, riuscire a varcare la soglia del cancello dorato del cinema; dall’altro i protagonisti lottano con ostacoli più insidiosi: i pregiudizi, gli stereotipi sociali e le ipocrisie. Può un’attrice di colore ottenere un ruolo diverso dalla cameriera? Può il bello essere anche vulnerabile? Può la bella ottenere la parte solo grazie alla sua bravura? Può un alto dirigente esprimere liberamente la propria sessualità senza inficiare la propria reputazione?
Questi e molti altri quesiti vengono posti nelle sette puntate di Hollywood, ma la patina è quella dello smalto brillante. I dialoghi incalzanti, la fotografia, i costumi (stupendi) e la colonna sonora rimandano al tempo della possibilità, al tempo in cui tutto era realmente a portata di mano, in cui Hollywood e forse l’America stessa era davvero dreamland. Seppur abbagliati dalle luci della ribalta, Hollywood non offusca visioni meno fiabesche. Le meschinità, le ipocrisie, l’oppressione razziale e quella sessuale si rivelano in maniera ancor più dirompente: tutto è possibile, ma forse non per tutti.
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