Non ho voglia di tornare in ufficio. Come combattere la pericolosa comfort zone del lavoro casalingo
Anche se le regole approvate dal Governo non autorizzano una vera e propria riapertura del Paese, non c’è dubbio che l’inizio della fase 2 dell’emergenza Coronavirus coincida, nella psicologia collettiva, con la giornata odierna. Da oggi riaprono molte fabbriche e tutte le aziende iniziano a interrogarsi su come e quando richiamare in ufficio i milioni di lavoratori che, in queste settimane, sono stati costretti a sperimentare una forma rozza, artigianale e incompleta di smart working, il lavoro casalingo. Abbiamo già ricordato le mille difficoltà cui sono andati incontro i lavoratori costretti dall’oggi al domani a lavorare da casa: orari impossibili, sbornie digitali, difficoltà logistiche sono state (e sono ancora) il pane quotidiano del lavoro tra le mura domestiche.
Il nuovo equilibrio e la paura di rientrare in azienda
Ma l’essere umano, si sa, è capace di adattarsi in fretta. Piano piano, sviluppando una strana sindrome di Stoccolma professionale, tanti si sono innamorati del proprio carceriere e ora, di fronte alla prospettiva di tornare in ufficio, scoprono una realtà sorprendente: non si sentono pronti ad abbandonare il nuovo equilibrio creatosi durante il lockdown. In queste settimane si è formata, grazie alla routine quotidiana, una comfort zone collettiva che renderà difficile riprendere il ritmo lavorativo che avevano prima della pandemia. Difficoltà che sarà accentuata da un altro problema: molte persone hanno paura di rientrare al lavoro, nel timore che possa aumentare il rischio di un contagio. Se a questi problemi aggiungiamo le difficoltà di gestire i figli, rimasti senza scuola, possiamo prevedere che per qualche settimana dovremmo assistere a una “pigrizia di gregge”, una difficoltà collettiva di rientrare sui posti di lavoro.
Come possono gestire le aziende questo rischio? Possono obbligare le persone al rientro in azienda?
La risposta dal punto di vista giuridico in linea di massima è positiva: se l’azienda è aperta, non c’è dubbio che un datore di lavoro posso esigere la presenza in ufficio. Tuttavia, le imprese dovranno adottare almeno due accorgimenti, per evitare che il dipendente possa legittimamente rifiutarsi di rientrare. Il primo accorgimento riguarda proprio lo smart working: si può abbandonare il lavoro casalingo integrale (stare a casa il 100% del tempo) mentre non è consentito vietare (a meno che non ci sia una valida ragione produttiva) il “vero” lavoro agile, quello che prevede l’alternanza tra casa e ufficio, come previsto dai vari DPCM approvati durante l’emergenza. Una scelta del genere tutela anche il datore di lavoro, che in una situazione di pandemia deve ridurre i rischi per la salute.
Il secondo accorgimento riguarda l’adozione di un “protocollo di sicurezza”: Ogni datore di lavoro dovrà adottare un pacchetto di misure coerenti con il documento firmato dal Governo e le parti sociali lo scorso 26 aprile; tra queste misure, è prevista anche la costituzione di un “comitato aziendale” che preveda il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, in tutte le aziende in cui sono presenti. Le aziende non dovranno tenere in considerano solo gli aspetti giuridici ma anche quelli psicologici: il timore di una ripresa del contagio è ancora molto alto, e alcuni dipendenti potrebbero non essere in grado di lavorare serenamente.
Ci vorrà un po’ di flessibilità e tolleranza verso questi lavoratori, ma bisognerà anche trovare dei meccanismi per far riemergere in ciascuno di loro il bisogno di tornare alla normalità (nei limiti che saranno lasciati dalle misure anti Covid): un sistema economico dominato dalla paura non ha futuro, è necessario che se ne convincano tutti.
Foto copertina di Dimitri Karastelev on Unsplash
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