A Milano scioperano i docenti. «Solo 30 Pc dal Ministero su 2 mila studenti. Come possiamo affrontare la terza media così?» – L’intervista
Di fronte ai dati e le testimonianze che arrivano dalle regioni del Sud, come la Calabria, dove sarebbero circa 12 mila gli studenti a non poter seguire la didattica a distanza per mancanza di dispostivi o di connessione, verrebbe da pensare che nelle più ricche e benestanti città del Nord la situazione sia diversa. Sicuramente a Milano, città martoriata dal Coronavirus, quantomeno le scuole avranno avuto i mezzi necessari per organizzare efficacemente la didattica a distanza? Non sembra proprio essere così.
Un primo segnale di sconforto viene proprio dal corpo docenti. I sindacati della scuola Flc-Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda di Milano e provincia hanno annunciato uno stato di agitazione a partire dal 13 maggio, dopo la mancata risposta a una lettera inviata pochi giorni fa al prefetto di Milano Renato Saccone, al sindaco Giuseppe Sala e al dirigente scolastico territoriale Marco Bussetti. Nella lettera veniva denunciata una «miope politica del Governo, di netta chiusura alle istanze sindacali» che «impedisce di affrontare con misure adeguate l’attuale stato di emergenza», e che con l’anno scolastico 2020/21 «rischia di far esplodere i già gravi problemi irrisolti che oramai da anni affliggono le scuole milanesi».
A preoccupare i docenti sono diversi temi: dal ripristino dei servizi di assistenza medica e sanitaria nelle scuole e i tamponi per insegnanti e studenti, alla necessità di mettere a norma la didattica a distanza, che continua ad andare avanti in uno stato di eccezionalità tra piattaforme poco sicure e Pc e dispositivi che mancano. Viene spontaneo chiedersi come faranno a sostenere gli esami gli studenti, sopratutto nella misura in cui richiedono una prova orale in video.
Non sono disponibili numeri ufficiali sul totale dei ragazzi e ragazze in Lombardia che non riescono a seguire la didattica a distanza, ma le stime dei sindacati sono impressionanti. Parliamo di circa 15% su 1 milione, ovvero 150mila studenti che hanno praticamente smesso di frequentare le lezioni – o lo fanno a fatica. Un dato che, se confermato, sarebbe superiore rispetto a quello della Calabria dove, secondo fonti dell’Ufficio Scolastico Regionale, è circa il 6% del totale. Questo a fronte di un investimento superiore da parte del governo, che alla Lombardia ha destinato circa 12 milioni per la didattica a distanza contro i 3,6 milioni della Calabria.
Per non parlare dello stato d’animo degli insegnanti, affaticati dalla mole di lavoro crescente e dalla precarietà del momento che si somma alle incertezze sul futuro (i supplenti per esempio non sono ancora stati confermati per l’anno prossimo). Poi, come racconta a Open Lorella Conte, insegnante di secondaria di primo grado presso l’istituto comprensivo Ilaria Alpi nel quartiere popolare di Barona a Milano, alcuni di loro hanno dovuto affrontare un periodo di malattia, anche in questo caso nell’incertezza di aver contratto il Coronavirus oppure no.
Quali sono state le più grandi difficoltà a cui siete andati incontro dall’inizio del lockdown?
«Come tutti sicuramente abbiamo ricevuto indicazioni poco chiare, a tratti contraddittorie. Il problema più grande è stato improvvisare l’uso di piattaforme che abitualmente noi non adoperiamo. Anche i ragazzi, che sono nativi digitali e usano social come TikTok, Instagram ecc., non hanno idea come usare alcune di queste piattaforme per lo studio. Un esempio è Word: se non lo apprendono a scuola, non sanno come usarlo bene. Un altro problema riguarda la sicurezza di queste piattaforme: è capitato per esempio che venissero postati link porno durante le lezioni»
Una goliardata?
«Penso di sì, ma abbiamo dovuto abolire l’utilizzo di Zoom per questo motivo. Poi ci sono anche i problemi di connessione. La maggior parte degli studenti fa affidamento soltanto sui cellulari, solo che un conto è connettersi per seguire la lezione, un conto è fare i compiti così»
Perché?
«Innanzitutto alcuni non accettano di farli così. Alcuni colleghi usano piattaforme come WeSchool, che consente di scrivere direttamente un testo e quindi non c’è bisogno di ricorrere a Word, ma dal cellulare non è facilissimo. Alcuni docenti accettano anche di inviare una foto dei compiti fatti sul quaderno, ma ovviamente così diventa difficile correggerli. Poi ci sono complicazioni di tipo burocratico, perché il documento va trasformato in pdf per evitare che ci possano essere “manipolazioni”. Subentra quindi anche l’incertezza che i compiti possano essere copiati o che i genitori possano aver aiutato i figli»
Insomma, avete dovuto improvvisare.
«Con un po’ di fantasia si potrebbe trovare il modo di fare la didattica in modo diverso. Io sono anche insegnante di musica in alcuni classi e ho cercato di cambiare il programma di studi, invitando gli studenti a cambiare i testi di qualche canzone, a buttare giù le loro emozioni le loro sensazioni e mettere un po’ in musica. So che altri colleghi hanno fatto lo stesso»
I dispositivi in più non sono arrivati?
«Nel mio comprensorio ci sono più di duemila studenti, tra primaria e secondaria, e abbiamo avuto circa duecento richieste da chi non ha proprio il Pc o deve condividerlo con i genitori. Noi abbiamo preferito chiedere i Pc piuttosto che i tablet e per ora ne sono arrivati trenta dal Ministero. Non so quanti ne arriveranno ancora, penso una ventina, poi dal Comune altri venti. Abbiamo ricevuto anche una donazione di una decina di Pc, ma non so se riusciremo mai a coprire la domanda iniziale. Se dovessero arrivare, la priorità l’avranno gli studenti di terza media che devono fare l’esame in video conferenza, ma anche su questo non ci sono certezze»
Fino a oggi li avete distribuiti seguendo questo criterio?
«Si, li abbiamo dati alle classi in uscita prima di tutto. Alla fin fine questo tipo di didattica ha creato una frattura ancora maggiore»
Che percentuale dei vostri studenti non è in grado di seguire la didattica a distanza?
«Da un monitoraggio che abbiamo fatto, è emerso che dall’inizio del lockdown sono al massimo due per classe. Se prendiamo in considerazione la scuola secondaria, si tratta di una sessantina di ragazzi, circa il 10%. Ma non per tutti il problema è semplicemente la mancanza di dispositivi. C’è un ragazzo che è tornato in Sri Lanka, per esempio, e che essendo rimasto lì deve fare le capriole per fare una video telefonata. Oppure ci sono anche ragazzi che hanno in famiglia un malato o magari lo sono stati»
Avete avuto casi di positività al Coronavirus a scuola?
«Io personalmente non ho fatto il tampone, ma credo proprio di averlo avuto. Avevo la febbre, la tosse e ho perso il gusto e l’olfatto – giusto per dare l’idea, il caffè non profumava più, i biscotti alla Nutella non avevano nessun sapore. La nostra dirigente è stata anche ricoverata e ora risulta negativa al tampone, ma il suo collaboratore non è ancora stato sottoposto a nessun controllo dopo ormai 50 giorni. Oltre a loro, mi risulta che si siano ammalati altri due colleghi, mentre tra i ragazzi seguo da vicino una famiglia in cui la madre si è ammalata e, dato che è stata curata a casa, hanno finito per ammalarsi anche i suoi quattro figli. Diversi genitori si sono ammalati e abbiamo perso qualche nonno, anche tra le vittime del Pio Albergo Trivulzio. So che in qualche caso anche i ragazzi si sono ammalati, ma con sintomi lievi»
La chiusura delle scuole non è servita?
«Noi docenti ci siamo ammalati la prima settimana di marzo, quando la scuola era chiusa per le attività didattiche. I primi tempi forse non avevamo piena consapevolezza della rapidità di contagio e quale fosse il rischio reale, eravamo anche un po’ incoscienti»
A suo avviso gli studenti sono pronti ad affrontare la terza media?
«Noi ci stiamo lavorando da un po’, indipendemente da quelle che saranno le indicazioni ministeriali. Per la tesina gli studenti porteranno un argomento a loro scelta, non necessariamente interdisciplinare. Quello che preoccupa è la poca chiarezza: prima doveva essere solo un elaborato, da qualche giorno sta trapelando la notizia che è prevista anche una discussione attraverso videoconferenza. Un conto è dare qualche giorno in più ed arrivare a dare la discussione dell’elaborato entro fine giugno, un conto è invece fare tutto entro il termine delle lezioni dell’8 di giugno. Ad oggi non è ancora uscita un’ordinanza. Non stanno minimamente tenendo conto dello stato d’animo dei ragazzi, anche perché non tutti avranno cominciato a prepararsi. Per loro è il primo esame ed è pesante viverlo in questo modo, con una certa distanza. In presenza c’è anche la comunicazione non-verbale con il docente che ti rassicura»
Cosa teme esattamente?
«Molti studenti sono già depressi, il grande lavoro per noi è incoraggiarli. Per quanto riguarda la bocciatura anche qui c’è un po’ di confusione. A quanto pare Bruschi [Max Bruschi, capo Dipartimento per sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero, ndr] qualche giorno fa avrebbe detto che per le assenze si possono eventualmente fermare i ragazzi. Ma se il ragazzo non si è connesso perché era malato o perché non aveva la fibra o il dispositivo, come si può pensare di bocciarlo? Poi non c’è attenzione verso un eventuale piano di recupero. Come ci regoliamo con le insufficienze? Nel nostro caso probabilmente le considereremo come un 6 con l’asterisco, ma poi ci dovremo inventare cosa fare a settembre, sempre che si possa tornare in presenza a scuola. E poi bisognerà vedere se le dimensioni dell’organico saranno le stesse. Anche questo non possiamo saperlo»
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