La liberazione di Silvia Romano e le mire neo-ottomane di Erdoğan: così la Turchia ha costruito il suo potere nell’Africa musulmana
La liberazione di Silvia Romano, la cooperante italiana rapita in Kenya nel novembre del 2018, è una buona notizia per l’Italia.E per la Turchia, che di fronte a un’Europa quasi inerme ha mostrato la sua forza nel continente africano. I servizi segreti di Ankara sono stati infatti una delle chiavi per arrivare all’incontro tra i terroristi e l’Aise, l’agenzia per la sicurezza italiana, e per la liberazione della ragazza.
L’espansionismo neo ottomano in Africa
La presenza turca in Somalia si è sviluppata nell’ultimo decennio. Dal 2011 Recep Tayyip Erdoğan è ammirato come un salvatore. Quando l’Europa voltò le spalle alla grande carestia che colpì il Paese in quell’anno, il Sultano scese dall’aereo con la moglie a Mogadiscio per correre in soccorso del fratello musulmano. Milioni di dollari di aiuti confluirono nel Paese per rafforzare il sistema educativo, le infrastrutture, e ricostruire l’apparato militare grazie all’addestramento dell’esercito somalo. Nella sua visione neo-ottomana e di rilancio della Sublime Porta Erdoğan ha allungato le sue mire oltre il Mediterraneo guardando ai 10 miliardi di barili di petrolio che Mogadiscio può offrire.
Lo scorso gennaio, il presidente turco ha annunciato di aver accettato l’invito del governo somalo per l’esplorazione di pozzi petroliferi. Ad oggi Ankara può contare anche su una base militare, la più grande costruita all’estero. Le compagnie turche gestiscono i porti aerei e marittimi di Mogadiscio, i suoi mercati sono pieni di merci prodotte dalla Turchia e la Turkish Airlines vola direttamente nella capitale, il primo grande vettore internazionale a farlo. La Somalia occupa inoltre una posizione strategica fondamentale per il suo accesso al Mar Rosso e al Golfo di Aden, uno degli snodi del commercio di petrolio più importanti al mondo.
Ma la partita di Erdoğan in Africa non si sta giocando solo in Somalia. Già nel 2005 il presidente turco aveva lanciato il suo programma di “Open to Africa Policy” per traghettare Ankara verso un nuovo mercato: quello africano e ristabilire legami con Paesi una volta sotto l’influenza ottomana. Nel 2017 Erdoğan ha rivolto il suo sguardo anche al Sudan e all’allora dittatore Omar al Bashir, deposto nel 2019, con cui concluse un accordo per il restauro dei siti ottomani nel Paese.
La partita con la Russia e la Cina
In tutta l’Africa la politica estera del Sultano è fatta però di un fine bilanciamento tra la sua presenza nella Nato, e il suo sguardo rivolto a Est. Nella partita libica Erdoğan è riuscito a ribaltare la situazione a favore del premier Fayez al Sarraj con il tacito consenso della Russia, alleata del rivale Khalifa Haftar, per una futura spartizione del Paese. Ma guardando ancora più a Est l’avventura turca in Africa non sarebbe stata possibile senza la partnership con la Cina. L’egemonia di Pechino nel Continente è sempre più massiccia, tanto che a fine 2019 la Cina ha lanciato un fondo infrastrutturale nell’ambito del progetto della “Belt and Road” da 1 miliardo di dollari.
Nel grande progetto infrastrutturale della Nuova via della Seta in cui la Cina mira a ridisegnare gli equilibri geopolitici del mondo e a riaffermare con forza la sua egemonia, la Turchia in Africa è un attore centrale. Una delle vie terrestri del progetto cinese per connettere Pechino all’Africa vede la Turchia come punto di partenza da cui, attraverso Siria e Palestina, si arriverebbe in Egitto.
Ed è così che mentre l’Europa ha ormai abdicato da mesi a un ruolo nella guerra libica, paralizzata dalle crisi di legittimità interna, e mai come oggi così poco unita, Erdoğan si è preso le chiavi del Mediterraneo orientale.
Con la liberazione di Silvia Romano il Sultano ha ribadito che anche in Somalia e nel Corno d’Africa uno degli interlocutori principali è Ankara. Il baricentro del mondo si sta spostando e l’Europa finora è restata a guardare.
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